Cosa ho capito leggendo “Schiavi di un dio minore”
«A un androide non si può far niente. Se ne strafrega, forse, oppure continua a sognare una vita che non è davvero la sua, è la rappresentazione che di quella vita si dà da solo, e, nei rari momenti in cui si riscuote, è convinto che quella vera gli sia stata sottratta da qualcun altro. E allora, torna a dormire».
Sono un fottuto androide. Per anni ho provato a sognare pecore elettriche per dimenticare il mio lavoro. Mica lo sapevo, eh. Lo immaginavo, mi ci facevo un film, come si dice. Ho iniziato a prenderne coscienza per davvero scrivendo Tabloid Inferno, poi, per fatale coincidenza di lame esistenziali rotanti al massimo, leggendo Schiavi di un dio minore di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini, uscito poco prima per Utet.
Non so se avete presente la sensazione di claustrofobica nausea che prende quando hai passato mesi a scrivere e ragionare su una serie di intuizioni in orbita intorno a un argomento, che poi sono diventate un testo, che a sua volta è passato attraverso mille versioni fino a toglierti la voglia anche solo di passarci lo spolverino del pensiero fugace, su quell’argomento.
Io sì, perché il mio lavoro consiste nello scrivere da sola prodotti editoriali che in un sistema culturale decente verrebbero prodotti da intelligenze collettive, o perlomeno redazioni di tre-individui-tre. Così in venti giorni devo interiorizzare il mondo degli spinterogeni o i segreti della psicoanalisi olistica e trarne 130 pagine for dummies. Capite, la nausea al cubo?
Per Tabloid è stato lo stesso, con in più l’aggravante che la vita che ho dovuto caricare in ram tutta in un colpo era la mia. «Il making of delle notizie di merda», ha detto Wu Ming 1, ma pure della mia vita di merda e del mio lavoro di merda, aggiungo io.
Così quando ho chiuso, visto si stampi e #ciaone, col cagotto dei refusi, degli errori, del “fa schifo ma come ho potuto scriverlo”, sull’onda della nausea per me stessa mi sono tuffata in Schiavi di un dio minore.
E quindi, niente, nessuna cortesia all’uscita, di nuovo la mia storia di merda, assieme a mille storie di merda. Potrei dire che mi sono commossa leggendo della donna-cucitrice con l’utero spremuto via dalla fabbrica o seguendo il volo di Yu volata dal tetto del dormitorio-falansterio. La verità è che a farmi male in questo libro, che raccoglie con lirica, spietata onestà le storie del lavoro che logora, stritola e uccide con piccoli ceppi 2.0, sono state le camerette delle bambine morte.
Me le ricordo bene, le camerette dei nostri “piccoli angeli”. Ricordo quando il pezzo ha iniziato a girare in rete e io mi sono detta: «Va bene, tu almeno questo no, c’è un limite a quanto in basso si può arrivare con la storia del “è un brutto lavoro, ma qualcuno deve pur farlo, perché sennò non farà altro” e questo è il tuo». Applausi, felicitazioni, pacche sulle spalle e ripristino dell’autostima. Ho venduto ogni sorta di monnezza, ma le camerette delle bimbe rapite e uccise, no. Perché non avevo vent’anni e l’idea di dover monetizzare in click il mio compenso a ogni costo? Forse. No. «Buggia!» dicevo da bambina. Perché ne avevo più di trenta e sapevo bene come non farmi beccare spremendo spiccioli dal trash nero. Battendo vie meno spudorate e insidiose, lastricate di trovate divertenti.
Perché un modo più paraculo di essere narcisisti rispetto a “ama il tuo lavoro” è “odialo a ogni costo” e questo modo da androide schizzata è stato il mio, è il mio. Ci ho pensato solo leggendo Giovanni e Loredana. Mesi fa ho creato un hashtag per le simpaticissime avventure della mia agra vita da free lance dell’editoria popolare, perché un po’ di autonarrazione precaria, come dicono loro, è il piccolo piacere pezzente che ci concediamo all’ombra della nostra incapacità di lottare insieme. #IloveMyJob per dire quanto faccio schifo, come sono miserrima e sfortunata a dilapidare così il mio talento, ma siccome sono generosa allora ne traggo battutismo d’accatto, così almeno collegiale, se non collettiva, sarà l’amara risata.
«Non c’è un cazzo da ridere» ha ripetuto allo sfinimento l’ editor liberando la mia storia di cronaca nera e precarietà di milioni di ammiccamenti e risatine pre-registrate. Io ho fatto finta di capire, ma ho capito davvero solo adesso, con questo libro che ti schianta.
Il lavoro ci toglie tutto, ci rende schiavi soprattutto quando siamo bravissimi a farne un’epopea pop colma di autoironia.
Il lavoro uccide. Non c’è un cazzo da ridere.