Diffondere libri per una società solidale. Noi riapriamo
Dal primo giorno in cui è stato decretato lo stato di emergenza, con le conseguenti misure di lockdown del paese, abbiamo detto che «le idee non possono andare in quarantena». Lo abbiamo sostenuto perché non riteniamo i libri una merce come le altre ma un bene «essenziale»: non perché siano una «medicina dell’anima» – come retoricamente ha detto qualcuno chiedendo di riaprire le librerie – ma perché sono uno strumento essenziale per mantenere uno sguardo critico sulla realtà, specie in un momento come questo dove dominano la paura e le quotidiane difficoltà economiche di sopravvivenza per moltissime persone.
Per convinzione e cultura politica non abbiamo mai creduto che si possano risolvere i problemi – a maggior ragione quelli più gravi – restando a guardare e sperando che qualcun altro o altra li risolva per noi. Per questo leggere, discutere, elaborare idee, soluzioni innovative di giustizia sociale e ambientale per il presente e il futuro, è più «essenziale» che mai. In momenti di crisi fare politica in prima persona diviene ancora più vitale.
Consideriamo quindi una conquista, a cui nel nostro piccolissimo abbiamo contribuito, il fatto che il governo abbia finalmente definito il lavoro culturale «essenziale», dopo aver sempre mostrato nessuna attenzione né stanziato reali finanziamenti alla filiera del libro, prima e durante l’epidemia. Ma questo riconoscimento non dev’essere una sorta di «book washing» da parte del governo, non basta e dobbiamo mobilitarci fin da subito perché a questa definizione di «essenziale» seguano ora e in futuro politiche di valorizzazione del lavoro culturale, in modo che non resti una parola meramente simbolica.
Abbiamo già denunciato il rischio, tra i vari danni che tutta la filiera subisce in questa fase, che le librerie indipendenti – presidi territoriali di militanza culturale e non semplici supermercati del libro –, già vessate dalle condizioni diseguali imposte dal mercato, possano in gran parte sparire a fine epidemia. Le grandi catene e i grandi store on line impongono agli editori, per venderne i libri, margini di sconto fino al 50 per cento sul prezzo di copertina, mentre le piccole librerie ottengono solo il canonico 30 per cento. Un meccanismo feroce che strozza da sempre i pesci piccoli e che in questa situazione può produrre una definitiva perdita culturale per tutti e lauti guadagni per i pochi che si accaparrano nuove fette di mercato.
Per questo consideriamo la riapertura delle librerie una buona notizia ma del tutto insufficiente: il settore va sostenuto con ulteriori ammortizzatori sociali per il reddito di tutti i lavoratori e le lavoratrici della filiera, con aiuti a fondo perduto per gli affitti delle librerie che, anche se decideranno di riaprire, avranno fatturati pesantemente ridotti, e in generale con un sostegno generalizzato al mercato del libro, ad esempio col finanziamento di massicci acquisti da parte delle biblioteche.
Con questo intento nei giorni scorsi, come casa editrice, abbiamo aderito alla campagna «adotta una libreria» lanciata da Eris edizioni: una forma di mutuo soccorso per sostenerci a vicenda con alcune delle librerie più legate alle nostre pubblicazioni, da sempre esposte nei loro scaffali e vetrine, e consigliate ai lettori. È una campagna che vogliamo continuare nei prossimi giorni, moltiplicando le librerie da sostenere – a cui per sopravvivere ovviamente non basterà riaprire in una condizione come l’attuale, o che magari legittimamente non se la sentiranno di riaprire.
Per parte nostra martedì rialzeremo la saracinesca della nostra piccola libreria. Capiamo perfettamente il timore che diversi nostri colleghi – che hanno dubbi o non vogliono riaprire – esprimono in questo momento per la salute propria e dei propri lettori affezionati. Ma non ci sentiamo – come qualcuno ha detto – delle cavie per le riaperture durante la pandemia.
Abbiamo sempre denunciato le condizioni di sfruttamento e la mancanza delle norme di sicurezza per i lavoratori agricoli che ci consentono di mangiare, per gli operai che garantiscono le pulizie delle strade e degli ospedali, per tutto il personale sanitario, e anche per i corrieri e i rider che consentono la distribuzione dell’approvvigionamento alimentare e, specie in questi giorni, anche dei nostri libri a domicilio. Ma al momento – al contrario di altri settori superflui i cui lavoratori in queste settimane sono stati costretti comunque a lavorare – i loro sono compiti «essenziali». E crediamo sia «essenziale» anche il lavoro culturale.
Le spedizioni e le consegne a domicilio potranno continuare per chi non se la sente di andare in libreria, e per le librerie che decideranno per il momento di non riaprire. Ma sono una toppa sul pantalone rotto, non possono essere il pantalone nuovo. E in questo momento riaprire, permettendo a chi ha una libreria sotto casa di servirsi da solo, consente anche di ridurre il numero di consegne di rider e corrieri, cosa utile anche a diminuire in parte l’esposizione di questi lavoratori ipersfruttati e sovraccaricati.
Noi riapriremo la libreria rispettando ovviamente tutte le norme di sicurezza per chi lavora e per chi viene a trovarci, in primo luogo la precauzione che tutti gli esperti considerano più efficace per evitare il contagio: la distanza fisica di almeno un metro tra tutte le persone.
Ci teniamo però a chiamarlo «distanziamento fisico» e non «distanziamento sociale» perché la parola «sociale» vogliamo lottare per preservarla nel presente e nel futuro. «Sociale» è poter andare nella libreria di quartiere a farsi consigliare un libro da leggere, e scambiare due chiacchiere in tutta sicurezza con un libraio; «sociale» è permettere alle librerie di sopravvivere anche dopo la pandemia; «sociale» è costruire idee collettive per fermare un modo di produrre destinato a devastare il pianeta e le nostre stesse esistenze. Abbiamo sempre combattuto chi ci ha detto negli ultimi quarant’anni che «la società non esiste, esistono solo gli individui»: non vogliamo smettere di farlo proprio oggi.
Molti esperti dicono che dovremo convivere con questo virus per tanti mesi, alcuni ipotizzano per due anni, finché non ci sarà un vaccino. Vanno dunque inventate nuove forme di socialità prendendo tutte le precauzioni per rispettarci tutti e tutte in modo solidale. Ma eliminare la parola «sociale» dal nostro vocabolario e dalle nostre pratiche per quasi due anni può avere conseguenze gravi, peggiorare complessivamente la nostra società e approfondire le diseguaglianze, specie in un momento di crisi come questo. Tenere aperta una libreria è una piccola cosa, ovviamente, come lo sono le singole esperienze di solidarietà e mutuo soccorso che si stanno moltiplicando ovunque per fare la spesa o per avere consulenza nell’accesso agli ammortizzatori sociali. Ma sono piccole azioni che servono a costruire un mondo migliore di questo, più attento alle nostre vite che ai profitti.