Google books e la libera circolazione del sapere
È recente la notizia della vittoria di Google contro la Authors Guild, sorta di sindacato statunitense degli scrittori, nel processo che dura ormai da otto anni contro Google Books, il progetto della multinazionale californiana di digitalizzare all’interno del proprio motore di ricerca milioni di libri da rendere disponibili gratuitamente in rete. Sul web si sprecano le grida di gioia in nome del trionfo della libertà di circolazione della cultura ma prima di idolatrare Google come un paladino della diffusione della conoscenza o di demonizzare editori e scrittori come spietati squali assetati di profitto quella che potrebbe sembrare una vittoria rivoluzionaria va invece analizzata più approfonditamente. Partiamo dalle motivazioni della sentenza del giudice Danny Chin: «Google non mette online i libri perché vengano letti nella loro interezza ma solo per renderli disponibili a chi vuole effettuare ricerche. […] L’opera di sicuro non è sanzionabile perché non viola alcuna norma sul diritto d’autore, anzi ha significativi meriti pubblici. Contribuisce al progresso delle arti e della scienza. Toglie dalla polvere degli scaffali questi libri e regala loro una nuova vita.» Parole condivisibilissime e degne del più radicale dei paladini del sapere libero ma che, oltre ad dover essere lette con attenzione, fanno sorgere un dubbio: perché mai Google impiegherebbe tempo e risorse per mettere a disposizione del progresso scientifico e culturale un così ampio patrimonio librario? Proviamo a capirlo.
Ancora non sappiamo come funzionerà Google Books dopo questa sentenza (considerando anche che la Authors Guild farà ricorso la parola fine su questa storia è ancora lontana), per ora il meccanismo è questo: opere ormai non più coperte da diritto d’autore (o riguardo le quali gli aventi diritto hanno dato a Google il permesso) possono essere visualizzate e scaricate interamente, mentre libri ancora protetti da copyright sono visualizzati sotto forma di stralci o di estratti in numero variabile di pagine. Questa modalità di visualizzazione, a differenza di una consultazione potenzialmente integrale come può avvenire in biblioteca, tipica di chi voglia studiare o fare ricerca, inficia gran parte del valore di contributo al «progresso delle arti e della scienza» che secondo il giudice Chin il progetto di Google porterebbe in sé e ricorda piuttosto la pratica di fornire assaggi di un prodotto per invogliarne l’acquisto. Bisogna ricordare infatti che Google è il motore di ricerca più usato al mondo e fa profitti tramite la vendita di spazi pubblicitari e la visualizzazione di annunci tarati su misura, utente per utente, in base al tipo di ricerche che sono effettuate e di siti visualizzati, senza contare il valore commerciale delle statistiche riguardanti interessi e gusti degli utenti elaborabili dai dati che raccoglie. Google trae quindi un vantaggio anche dalla semplice visualizzazione e navigazione attraverso le sue pagine.
Ma anche nel caso in cui dopo questa sentenza Google iniziasse a visualizzare integralmente tutti i libri che ha nel proprio database, rendensosi così molto più simile a una biblioteca e fornendo un servizio obiettivamente utile alla collettività, oltre al tornaconto che continuerebbe a derivarle dagli annunci pubblicitari resterebbe quella dinamica tipicamente monopolistica con cui sono solite muoversi le multinazionali, soprattutto nei settori dell’informatica e delle telecomunicazioni (basti pensare ad Amazon o alla Microsoft). Google books è infatti pensato in stretto collegamento con Google play, il negozio on-line di Google da cui si possono comprare app, software e quant’altro si possa fruire tramite device di ogni tipo, dai computer ai tablet agli smartphone, quindi ovviamente anche gli e-books. Immaginare quindi che nella più grande biblioteca del mondo, accessibile da chiunque abbia una connessione internet, ci sia anche un negozio in cui poter comprare quegli stessi libri in formato e-books lascia ben intendere quale sia il potenziale commerciale di questa operazione (niente a che vedere quindi col ruolo che ricoprì anni fa Napster nei confronti delle multinazionali discografiche all’epoca della battaglia per la diffusione gratuita della musica su internet).
Ma non si tratta solo di questo. I sostenitori dell’importanza del ruolo dei privati nella gestione dei servizi al pubblico (quindi anche nel campo della cultura, del sapere e del diritto allo studio) potrebbero asserire che i ricavi ottenuti da Google tramite la pubblicità, e la sua furbizia nell’affiancare un servizio di vendita a uno di consultazione, siano la giusta ricompensa per un servizio di tipo bibliotecario offerto alla collettività. Il problema, soprattutto quando si parla di gestione della cultura (ma non solo) è invece un altro: per garantire una vera libera circolazione delle informazioni e del sapere e un accesso universale al patrimonio scientifico e letterario dell’umanità non basta un approccio quantitativo, ne serve anche uno qualitativo. Secondo quali parametri Google sceglierà i libri da digitalizzare, e con che priorità? Su quali edizioni si baserà? Nel caso di libri più antichi privilegerà un rigoroso approccio filologico o userà edizioni a caso? Come sceglierà tra più traduzioni di uno stesso testo? Si concentrerà su un canone culturale occidentale (o, peggio ancora, esclusivamente angloamericano) o userà un approccio non eurocentrico nella scelta di autori e opere? Saranno privilegiate alcune discipline (nel caso di saggi) o generi (nel caso della letteratura), magari su basi commerciali, oppure ogni campo del sapere riceverà adeguata attenzione? Sono solo alcune delle domande che si potrebbero porre e che fanno emergere la necessità di una gestione ragionata e scientifica delle politiche di diffusione del sapere e di sostegno alla ricerca.
Un vero progetto di biblioteca digitale universale dovrebbe essere pensato esclusivamente con finalità sociali e collettive, scevre da qualsiasi tipo di profitto, e gestito da attori quali le università e le biblioteche, soprattutto se si vuole che sia uno strumento utile alla ricerca e quindi al progresso collettivo delle arti e delle scienze (come scritto nella sentenza del giudice Chin). Enti pubblici o gestiti dalla collettività, e senza scopo di lucro, potrebbero ragionare sul catalogo di tale biblioteca privilegiando in termini di priorità, per esempio, tutti quei testi scientifici molto utili ai fini della ricerca ma poco appetibili per il mercato, in quanto fruibili da un ristretto pubblico di specialisti o addetti ai lavori. Testi che quindi senza il sostegno di enti come questi difficilmente troverebbero (e trovano) spazi di pubblicazione in un mercato dove sopravvivono solo editori appartenenti a grandi gruppi e che più che perseguire finalità culturali si limitano a pubblicare i best seller del momento.
Questo aspetto chiama in causa il dibattito, molto più vivo all’estero che non in Italia, sul rapporto tra le università, l’editoria di saggistica e di ricerca, e gli istituti bibliotecari. In tempi in cui l’innovazione tecnologica potrebbe rendere potenzialmente fruibile da tutte e tutti qualsiasi tipo di contenuto nasce la necessità di trovare modelli alternativi di diffusione della cultura che permettano sia un accesso universale ai saperi che una giusta retribuzione per gli attori impegnati nella ricerca e per le figure lavorative che si occupano dei processi editoriali, bibliotecari e informatici necessari alla pubblicabilità e diffusione di quei cotenuti. Modelli di university press in cui editori legati al mondo universitario pubblichino in maniera digitale e gratuita i lavori dei ricercatori, rendendoli accessibili secondo paradigmi open access, diffusi appoggiandosi alle infrastrutture bibliotecarie, permetterebbero la diffusione gratuita dei risultati delle ricerche e il loro uso per ulteriori sviluppi disciplinari, senza che le figure coinvolte lavorino gratis o vedano “scippati” i loro diritti d’autore, in quanto sovvenzionate dai finanziamenti pubblici agli atenei e ai beni culturali (le biblioteche, in questo caso). Un progetto come questo di biblioteca digitale universale creerebbe anche centinaia di posti di lavoro altamente qualificati nei settori della ricerca, dell’editoria, dell’informatica, dell’archivistica e biblioteconomia, assorbendo fette di disoccupazione altissima in questi che sono tra i settori in cui i giovani neolaureati faticano di più a trovare possibilità di impiego.
Questo meccanismo virtuoso tra university press, digital library e open acces ovviamente apre altri discorsi relativi al funzionamento e al finanziamento delle università e delle biblioteche e al nuovo tipo di gestione degli atenei e della ricerca che sarebbe necessario. Una gestione più orizzontale e controllata dal basso e dal protagonismo degli attori coinvolti (ricercatori, studenti, professori, bibliotecari, figure editoriali, ecc.) atta a scardinare meccanismi di baronato come quelli per cui pochi professori che ricoprono posti di potere nei dipartimenti, controllandone quindi la ricerca, e legati ad alcune case editrici, imbottiscono i programmi dei corsi universitari di testi spesso anche di dubbio valore obbligando gli studenti a comprarli sfruttando così un mercato quasi garantito. O discorsi sull’estrema importanza delle biblioteche come presidi di diffusione della cultura nei territori e di sostegno al diritto allo studio, specie in un periodo in cui questo tipo di enti sono i primi a subire i tagli indiscriminati dettati dalle politiche di austerity. Ma sono discorsi più ampi che qui non abbiamo il tempo di fare.
Ciò che resta è che già molte altre volte colossi multinazionali del web come Amazon, Apple e la stessa Google hanno eretto imperi miliardari sulla musica, l’editoria, la cinematografia, ecc. proponendo modelli votati al profitto e non alla valorizzazione della diversità culturale, a scapito di realtà indipendenti piccole e medie. Il problema infatti non è se Google Books violi o meno i diritti delle case editrici quanto il fatto che a cantarsela e suonarsela siano, come sempre, i colossi. A fare causa alla società californiana infatti sono stati 5 grandi editori, John Wiley & Sons, McGraw-Hill, Penguin Usa, Simon & Schuster e Pearson Education (i quali tra l’altro hanno trovato già qualche anno fa un accordo con Google che ha infatti lasciato la Authors Guild da sola). I piccoli e medi editori indipendenti di tutto il mondo hanno già abbastanza problemi nel cercare di far quadrare i loro conti perseguendo progetti culturali, spesso di altissima qualità, da non avere di certo modo e tempo per preoccuparsi di Google Books, né nulla da temere da biblioteche, cartacee o digitali che siano, che del resto sono sempre esistite senza essere la causa della crisi del mercato editoriale. La cosa preoccupante è che quella che viene spacciata come una sfida tra la libertà di diffusione del sapere e la retribuzione del lavoro culturale è invece solo una battaglia di posizione tra multinazionali dell’informatica e grandi gruppi editoriali.
Certo, gli editori non possono vivere di sola aria, e una biblioteca digitale accessibile da internet ha una portata ben più ampia delle classiche biblioteche. Ma molteplici esempi, e non solo nel mondo della carta stampata, dai Wu Ming ai Radiohead, hanno dimostrato che la diffusione gratuita dei prodotti culturali spesso funziona anzi come un incentivo all’acquisto da parte di chi, una volta fruito gratuitamente e apprezzato, decide di comprare per sé o per regalare ad altri o, addirittura, sovvenzionare autori e artisti per il loro lavoro. E del resto sono davvero pochi gli scrittori al mondo che vivono grazie agli introiti dei loro libri (e, tra l’altro, non sono quasi mai scrittori le cui opere contribuiscono all’arricchimento del patrimonio culturale dell’umanità). Quella del sindacato degli scrittori statunitensi sembra più una battaglia di retroguardia per evitare che quei pochi autori di best sellers che ancora riescono a ottenere lauti guadagni dalle vendite possano rischiare di vedere le loro opere diffuse gratuitamente on-line.
Questo aspetto chiama in causa un’altra tematica cui la vicenda del processo contro Google Books allude e cioè quella del diritto d’autore e delle licenze d’uso non commerciali o alternative finalizzate a una più libera diffusione del sapere come le creative commons. È ovviamente giustissimo che artisti, scrittori e musicisti vogliano vivere del proprio lavoro ma la crisi economica del settore della cultura non dipende di certo dalla possibilità di fruire gratuitamente di alcuni prodotti quanto da uno scadimento generale del panorama culturale e dall’abbattimento del potere d’acquisto dei cittadini e delle cittadine. Nel mondo della musica molti artisti hanno già compreso come la migliore fonte di sostentamento e guadagno non sia la vendita della propria opera su un supporto fisico ma il puntare sui concerti intendendoli non soltanto come eventi musicali dal vivo in cui riprodurre gli stessi contenuti di una registrazione, quanto come un momento di godimento artistico in cui far vivere un rapporto di scambio col pubblico offrendo così agli ascoltatori un qualcosa di più rispetto alla semplice fruizione musicale che possono avere ascoltando un album da casa, e quindi proponendo loro qualcosa d’altro per cui valga la pena pagare il biglietto di un concerto. Lo stesso discorso si può fare per teatro e cinema mentre solo da poco, nel mondo dell’editoria, si sta ponendo l’accento su nuove modalità di promozione e diffusione del libro che coinvolgano in maniera attiva e dal vivo il lettore, andando oltre lo schema classico delle presentazioni e dei reading, e sostenendo anche un’attività itinerante sul territorio, da parte degli scrittori, che da un lato ha un importante effetto di diffusione culturale e dall’altro gioca un ruolo di accrescimento personale attivando uno scambio reciproco tra chi ha scritto e chi ha già letto o ha intenzione di leggere.
La maniera per permettere a chi la cultura la crea (scrittori, musicisti, artisti, attori, registi, ecc.) e a chi la produce, pubblica, edita e diffonde (case editrici, produttori musicali o cinematografici, teatri, ecc.) di sopravvivere non è quella di arroccarsi su concezioni ormai superate di diritto d’autore come quelle portate avanti in Italia dalla SIAE ma, innanzitutto, operare politiche di redistribuzione della ricchezza che permettano a tutti e tutte di poter spendere in cultura oltre che in beni di prima necessità (ammesso e non concesso che la cultura non lo sia) e, in secondo luogo, politiche pubbliche di sostegno e di incentivi alla cultura e agli agenti culturali, finanziando teatri e biblioteche, organizzando e patrocinando festival di editoria e cinematografia, dando visibilità ai piccoli e medi editori oscurati da quegli stessi media che appartengono infatti ai grandi gruppi editoriali, sostenendo piccoli esercizi commerciali come librerie indipendenti e negozi di dischi e film a scapito delle grandi catene della distribuzione organizzata, mettendo a disposizione infrastrutture e servizi che abbassino costi come quelli della logistica che spesso sono gestiti da monopoli, e adeguando legislazione e giurisprudenza alle innovazioni tecnologiche in atto, in materia di diritto d’autore e non solo (per esempio è assurdo che l’IVA sui libri sia del 4% mentre sugli e-book, considerati prodotti tecnologici e non editoriali, sia del 22%). Oltre, ovviamente, a politiche di finanziamento e sviluppo qualitativo dell’istruzione che permettano a chiunque di avere, oltre alle possibilità materiali, anche il bagaglio culturale e il senso critico necessario per fruire e godere appieno di prodotti culturali di qualità.Per fare tutto questo occorre che siano in primo luogo i soggetti protagonisti della cultura e della conoscenza ad attivarsi dal basso perché se aspettiamo che sia il gigante della Silicon Valley a risollevare le sorti della diffusione del sapere possiamo metterci comodi, perché ci sarà ancora molto da attendere.