I dannati della terra
Angelo Ferracuti, giornalista e scrittore incallito, racconta gli ultimi dieci anni del Bel Paese, quelli della crisi economica, della precarietà esistenziale, quelli della deriva culturale e della devastazione ambientale, in un volume di 224 pagine edito dalla casa editrice Alegre. I tempi che corrono raccoglie le istantanee di un viaggio per un’Italia ipocrita e ipocondriaca, gli ultimi reportage apparsi sul Manifesto e Gente viaggi, i ritratti estemporanei, carsici e materici, come se fossero stati intagliati nella pietra, di un popolo sotterraneo. Prima il preambolo, adesso la parola ai protagonisti. “Non è la prima lettera che scrive al padrone, altre volte lo ha fatto, a lui piace scrivere, esternare, anche se non è uno scrittore, e si è pure iscritto all’Università, continua a studiare, perché sa che gli strumenti culturali sono armi pacifiche ma potenti che servono nella vita, ma anche nella lotta politica”. L’operaio Guerriero Rossi lavorava nella fabbrica Tod’s di Comunanza. Venne licenziato per aver scritto una lettera, semplice, lineare e senza sbavature, in cui criticava gli atteggiamenti paternalistici del padrone. E ancora, prima che l’indignazione avveleni una lettura serena e pacata in poltrona, “Dentro non c’erano secchi, bacinelle, estintori, nessuna norma di sicurezza, e poi ci sono stati ritardi incomprensibili nei soccorsi, dalle 9,30 alle 12,30 i Vigili del Fuoco hanno fatto solo voci, mentre dentro si sentivano ancora le urla di quelle poverette”. Stavolta è una signora che abitava nello stabile dove si è consumata la tragedia. La città è Padula, all’uscita dall’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Invece Nicola Abrate rigetta al giornalista, brizzolato, barba curata e occhi fissi su “quei gomiti appoggiati sulla scrivania”, le mani giunte, raccolte in attesa di una confessione: “Pensa che quando sono entrato in fabbrica i capannoni erano incompleti, mancavano i tetti, le porte, c’erano solo un paio di binari dai quali arrivavano le carrozze. Sono stato uno dei primi, e ci ho lavorato fino alla chiusura”. Otto ore per cinque anni, scrostando amianto col raschietto nelle carrozze delle Ferrovie Dello Stato all’Isochimica di Elio Graziano, al centro di Avellino. E non è tutto. Affiorano dalle pagine, velate da forti accenti autobiografici, le fisionomie costernate di scrittori autentici come Pasolini, Di Ruscio e Fenoglio. Ridicolizzare i falsi miti, estraendo con particolare attenzione, scientifico Ferracuti nel dosare le parole nella provetta, l’umanità negata dallo stereotipo mondano, dai rotocalchi del potere. Del resto la stessa umanità è negata all’operaio di fabbrica, al migrante costretto ad elemosinare un lavoro massacrante nei lager italiani, alle due donne morte asfissiate e carbonizzate, poco prima che l’Italia vincesse il mondiale. Non a caso Pasolini si ritrova a dire: “Il successo non è niente. È una forma…è l’altra faccia della persecuzione. E poi il successo è una cosa brutta per un uomo.” mentre gli sgherri del qualunquismo belavano, violenti, disumanizzati, invocando la santità di una tradizione, di un sistema che ancora oggi perpetua se stesso. Un insieme totalizzante, un calderone di esperienze, frammenti intercambiabili, testimonianze inedite dai gorghi del conflitto, dalle zone rosse dello sfruttamento capitalista, trovano una specificità letteraria nel reportage sociale: come se non ci fosse un discrimine netto, la forma più intensa, il prodotto più grezzo del giornalismo sussume lo sfogo, le velleità di un’interpretazione critica della realtà. Il giornalista è scrittore e lo scrittore giornalista, osservatore scrupoloso della contemporaneità. La nostalgia dei tempi che furono, il trauma della morte del movimento operaio, la precarizzazione dell’esistenza, non pongono limiti al desiderio di rivincita dei protagonisti, di personaggi chiave di una Storia senza fine, modello per una ricomposizione di classe: senza passare per vittime, senza chiedere pietà, imbracciando soltanto la voglia, l’aspirazione di un riscatto globale della propria persona, ognuno racconta la propria quotidianità, le proprie inclinazioni, le proprie aspettative. L’interprete intanto rinfocola l’odio. L’importante è che ogni vissuto sia inserito in un casellario omogeneo, in un blocco apparentemente monolitico, che mostri l’entità, l’essenza eterogenea ma univoca, di chi oggi subisce i costi e le contraddizioni della crisi economico-culturale. Il fine: creare immaginario collettivo, infondere la speranza in coscienze abbrutite dalla rassegnazione. Infatti la continuità stilistica e tecnica del reportage diviene forma espressiva: sintassi cruda e priva di fronzoli, periodi brevi, interrotti, frammezzati dal punto, tanto per prendere respiro, addolciti dalle macchie di inchiostro, dalle pennellate di colore di una digressione che inesorabilmente sfugge di mano, capitoli che si susseguono, linearità strutturale. Tutto collima, impatta nelle note chiaroscurali della conclusione: Angelo Ferracuti butta sul piatto l’esperienza finale, la sua. “Capii che l’Italia è un Paese dove è assai difficile fare arte, non è come si suole dire dagli stranieri che l’arte in Italia sia a casa propria, in Italia può nascere l’arte, ma che solo una piccola parte degli italiani se ne interessi, questa è un’altra faccenda”, rifletteva dopo aver scorrazzato per le vie di Fermo, sua città natale, indossando la divisa di postino. “Indubbiamente compresi che uno in Italia può solo considerarsi artista di vera fama il giorno in cui arriverà a essere conosciuto a Fermo o in una delle tante cittadine simili a questa: antichissime, cerchiate di mura, tutelate dal severo controllo della curia e dove ancora la vecchia civiltà non sia stata scardinata”. – See more at: http://www.pagina99.it/blog/4627/I-dannati-della-terra.html#sthash.47O8kUba.dpuf