Il giallo racconta di noi
Carlo Lucarelli non è solo uno scrittore. Custodisce e coltiva il mistero e ne fa un genere attraverso il colpo di scena, “un gancio straordinario” con cui crea emozioni letterarie. Il giallo può essere una categoria difficile da catalogare. Ormai esiste l’hostage thriller, il medical thriller, il crime o il mistery, i sottogeneri sono decine. “Quando all’estero mi chiedono cosa scrivo non so cosa dire”, racconta Lucarelli. Per spiegare di cosa stiamo parlando, allora, propone una formuletta molto semplice: “Un bambino torna a casa, racconta della scuola, i genitori lo ascoltano, poi si mettono a pranzo. Non succede niente. Ma se quel bambino, tornando a casa, guarda i genitori in silenzio per qualche secondo e poi dice: ‘Non potete immaginare cosa ha fatto oggi la maestra’… allora il gioco è fatto. La storia può cominciare, abbiamo un giallo”. La differenza è il modo di raccontare. “Posso raccontare le stesse storie di Baricco ma quello che fa la differenza è scrivere un’opera di narrativa incentrata su un mistero sviluppato secondo le tecniche della suspence e del colpo di scena fino a uno svolgimento finale inatteso. Questo è noir. Come i Promessi sposi, in fondo”.
Carlo Lucarelli è la persona giusta per entrare nella storia del genere e dei suoi personaggi: Poirot, Sherlock Holmes, Marlowe, Maigret, Montalbano. Figure dalla forza espressiva notevole che rimangono appiccicate al lettore molto più dei loro autori.
Che distinzione c’è tra giallo, noir, poliziesco e tutti gli altri generi?
È vero che il giallo classico risponde a una domanda ben precisa: chi è stato condannato e perché. Il poliziesco, invece, utilizza la polizia come protagonista con tutta la sua struttura. Gli americani utilizzano la definizione di procedural, come ad esempio la serie televisiva The Shield. Ma è difficile dare una definizione a qualcosa che nel frattempo si è fuso e mescolato. Io ho sempre preso come riferimento la “libreria del giallo” di Milano, gestita da Tecla Dozio. Tutto quello che c’era su quegli scaffali apparteneva al genere. Ci avremmo potuto trovare sicuramente Agatha Christie, il giallo classico ma anche Raymond Chandler, con il suo poliziesco americano d’azione, l’hard boyled. Ci avremmo trovato Patrick Manchette o Leo Malet, gli autori del polar francese con storie molto disperate e con risvolti sociali forti, che parlano di individui braccati dalla polizia in cerca di una resurrezione. C’erano Eraldo Baldini e, poi, Massimo Carlotto. Una fusione di cose che si sono sviluppate nel corso degli anni. Lo svizzero, Friedrich Glauser diceva: “Il giallo è un ottimo modo per dire cose sensate”. Quindi non va inteso come un “genere” ma come un’ottima macchina, una specie di Ferrari che è la narrativa del colpo di scena, un gancio meraviglioso per attrarre il lettore.
All’inizio, però, abbiamo un genere piuttosto elegante e definito. Agatha Christie, Conan Doyle.
Il primo romanzo che rientra nella definizione di “giallo” è I delitti della Rue Morgue pubblicato da Edgar Allan Poe nel 1841. È una storia quasi fantastica, per certi versi soprannaturale. Il delitto è avvenuto in una stanza ermeticamente chiusa dall’interno. Il detective, utilizzando solo la propria testa cerca di capire cosa è successo. E ci riesce. Per un lungo periodo il giallo è stato questo: un “fattaccio” che viene scomposto e analizzato da un detective. Il disordine rimesso in ordine. Il modello però va in crisi, anche quello di Agatha Christie, perché il mondo cambia: il detective eccentrico, il più eccentrico possibile, non funziona più. È un modello che non racconta più la realtà ed ecco che arrivano gli americani con l’hard boiled, Raymond Chandler (vedi Marlowe) o Dashiel Hammett. Secondo Chandler bisognava “restituire il delitto a chi lo commette davvero”. Basta con gli omicidi del visconte scozzese in un castello con la stanza ermeticamente chiusa, senza lasciare tracce. Un gioco letterario che ai tempi di Agatha Christie poteva andar bene ma dopo, nel vivo di crisi sociali acute, non regge più. Diamo il delitto, quindi, al killer di mafia o andiamo a vedere chi ha ucciso il garzone del macellaio per coprire la corruzione del governatore. Questo è l’hard boiled americano. L’uomo di cui si parla non è più “strano”, come Sherlock Holmes o Hercule Poirot, uno strano investigatore belga dai baffi impomatati, ma una persona normale. Generalmente un uomo solo contro il potere. Marlowe è un investigatore privato, buttato fuori dalla Procura ma che non perde la voglia di indagare e di contrastare le ingiustizie.
Il protagonista, però, rimette ancora a posto le cose. Mette ordine nel disordine.
Sì, ma i modelli cambiano continuamente. Chandler sosteneva che l’investigatore dovesse essere ineccepibile, “un cavaliere senza macchia e senza paura”. Marlowe, infatti, ha una sua morale. Se ha un difetto è quello di bere troppo; è troppo indipendente ma non va a letto con le clienti; si innamora. È un romantico.
Ma a un certo punto, ad esempio con Patricia Highsmith (che crea Tom Ripley, ndr) ci troviamo di fronte a protagonisti che diventano anch’essi cattivi, a indagini condotte da poliziotti negativi, esponenti di un potere oscuro. Uomini con molti più difetti e contraddizioni. La contraddizione si impone. Non ricordo chi, tra Sciascia e il grande scrittore svizzero Durrenmatt, abbia definito questo genere come “il romanzo problematico o dell’inquietudine”. In effetti, quello di cui parliamo è il romanzo della metà oscura.
La storia del genere, quindi, prosegue a tappe e ognuna ingloba l’altra.
Diciamo che c’è un’evoluzione letteraria e storica. All’inizio il giallo è razionalità, una soluzione che risolve l’irrazionalità (Sherlock Holmes, il cavalier Dupin di Allan Poe, Agatha Christie). Poi si passa a storie dallo sfondo sociale che “restituiscono il delitto a chi l’ha commesso davvero”, per arrivare alla contraddittorietà in cui fuoriescono protagonisti negativi. Penso, però, che ci sia un momento in cui si arriva alla mescolanza dei generi. Storie noir, ad esempio, con venature di horror. Uno dei maestri è Stephen King, altrimenti difficile da collocare. Oppure il nostro Niccolò Ammanniti. Contemporaneamente c’è stata l’evoluzione del lettore – il vecchio lettore dei Gialli Mondadori era in grado di leggere un libro ogni quindici giorni – che si è cibato di una letteratura mondiale. Questo ha prodotto anche l’evoluzione degli editori che hanno iniziato a sperimentare. Così il genere è uscito dalle “collane di genere” ampliando l’offerta. Sellerio inizia a pubblicare molti polizieschi, tra cui il mio, perché, spiega, “facciamo letteratura di frontiera”. E il noir è letteratura di frontiera.
Il protagonista più affascinante sembra essere “l’irregolare”. Cosa rappresenta?
L’irregolare è quello che si alimenta di una realtà che sta al margine. Il noir francese di Jean Patrick Manchette o Leo Malet parlano di persone emarginate, piccoli criminali, delinquenti, anarchici, rivoluzionari, impegnati in una Parigi tentacolare contro l’ingiustizia e il potere. Lo facevano “dalla parte sbagliata” ma il protagonista del noir è sempre una persona che da sola svolge un’indagine non autorizzata. Altrimenti non avremmo inquietudine e contraddizione. Se avessimo la società intera che in maniera pacifica indaga su sé stessa, con tutta la magistratura, la squadra mobile e magari anche la politica, non ci sarebbe ansia. Noi abbiamo a che fare, invece, con un “poveraccio” che si muove in un mondo che, invece, gli è contro.
Ma funziona anche il romanzo con il poliziotto regolare?
Il bello del nostro genere è che non c’è mai stato un modo di scrivere codificato, nonostante qualcuno tenti di fissare le “dieci” o “venti” regole del giallo. Perché quello che conta è la sorpresa. Il colpevole non può essere sempre il maggiordomo. Occorre scardinare e gli esempi contraddittori non mancano mai. Ad esempio il commissario Maigret, la figura più noir di tutte, quella che nelle sue memorie scrive, lui, una lunghissima lettera al proprio autore, Georges Simenon, in cui gli rimprovera tutto quello che non ha capito. Quasi come se a esistere fosse Maigret e non Simenon. Eppure, lui se ne sta alla Sureté di Parigi, ha dietro tutti i suoi uomini, è perfettamente integrato, portatore dei valori della società, e rimette le cose in ordine. Lo fa con calma, rimanendoci male perché scopre ogni volta che il mondo è brutto ma in fondo lo sapeva già. Maigret è anche uno dei pochi personaggi che ha un rapporto pacifico con le donne, tranquillamente e felicemente sposato. Tutti gli altri sono soli, divorziati, con situazioni critiche, con problemi.
Da regolare a irregolare il passo è sempre breve.
Infatti, prendiamo il caso di Duca Lamberti, di Giorgio Scerbanenco, protagonista di quattro romanzi noir di una bellezza eccezionale. Racconti della Milano del boom e della connessa ingiustizia sociale, che sembrano ancora attuali. A I ragazzi del massacro basterebbe sostituire le etnie, con marocchini e rumeni al posto dei meridionali di allora, per avere un romanzo di oggi. Lamberti è totalmente irregolare, è un medico radiato dall’ordine perché ha praticato l’eutanasia. Comincia ogni romanzo con la convinzione ferrea che gli assassini vadano ammazzati, e finisce sempre con l’idea opposta dopo essersi confrontato con la sua ragazza, femminista e psicologa degli anni 60.
Nella sua Storia sociale del Romanzo poliziesco, scritta però nel 90, Ernest Mandel cita cinque autori italiani: Scerbanenco, Eco, Sciascia, Fruttero e Lucentini. Che nomi potremmo aggiungere?
I nomi di Mandel sono giustissimi. La Donna della Domenica di Fruttero e Lucentini è straordinario. Il nome della Rosa rompe il pregiudizio accademico perché a scrivere un giallo è un uomo dell’alta cultura. Ne vanno aggiunti molti che sono venuti dopo, come il “noir mediterraneo”. Alcuni, però, potevano esserci anche prima ma appartenevano alla stagione in cui il giallo era solo letteratura di genere e scontava il pregiudizio accademico – “il giallo è straniero e noi non ce lo abbiamo nelle nostre corde” – oppure quello politico. Quando il giallo esplode, infatti, negli anni 20-30, viene proibito dal fascismo perché questo capisce che si tratta di letteratura ad alta valenza politica. Si veda il lavoro di Augusto De Angelis (Il commissario De Vincenzi, ndr) che verrà perseguitato dalla censura.
Poi ci sono stati i pionieri che sono andati avanti lo stesso negli anni 60 o 70. Giorgio Scerbanenco ma anche Loriano Macchiavelli che scrive Sarti Antonio nel 1974 perché sta facendo teatro di strada, molto politico, finendo spesso in galera. E lì capisce che le sue storie, raccontate in un romanzo poliziesco, avrebbero raggiunto molta più gente. Poi arriviamo “noi”. Grazie alle case editrici che “aprono le gabbie” nascono scrittori che vogliono raccontare la realtà, attuale o del passato, tramite una storia poliziesca. Sicuramente vanno citati
Massimo Carlotto e Andrea Camilleri.
Arriviamo a Montalbano. Come si spiega il successo di questo personaggio?
Anche lui non è un irregolare. Forse è il più vicino a Maigret. Il suo successo si spiega con la bravura di Camilleri che utilizza magistralmente i punti di forza della tecnica narrativa. Nel giallo esiste “l’uomo che cerca” e “l’uomo che nasconde”. L’uomo che cerca è il detective e può essere quello che vuoi. Questo ti permette di costruirlo a tutto tondo. Come, appunto, avviene con Montalbano. L’altro punto di forza è che il giallo consente la serie. La storia non finisce e così anche il lettore si affeziona. Camilleri è stato molto bravo, inoltre, a costruire altri personaggi di supporto al commissario, personaggi che al pubblico piacciono: Catarella, Fazio. Poi racconta storie belle e poliziesche che vogliamo sapere come vanno a finire. Il tutto raccontato in una lingua estremamente musicale. Camilleri sfrutta sapientemente tutte le possibilità di questo modo di raccontare. È tra i pochissimi, ad esempio, che in un romanzo parla efficacemente dei fatti di Genova 2001 quando Montalbano pensa di dimettersi dalla polizia.
Ha parlato spesso di “noi”, del “noir mediterraneo”. Di cosa parliamo? Una scuola, un gruppo?
Non esistono scuole. Noi ci siamo ritrovati a Bologna nel Gruppo 13 con Marcello Fois, Pino Cacucci, Loriano Machiavelli e molti altri, unita da una sensibilità comune. Il “noir mediterraneo”, che negli Usa chiamano noir europeo, ha avuto come esponente in Francia Jean Claude Izzo, l’ ideatore di Fabio Montale che, purtroppo, muore troppo presto. In Spagna è rappresentato da Francisco Gonzales Ledesma e, ovviamente, da Manuel Vàsquez Montalban. In Italia vanno poi citati Camilleri, Massimo Carlotto con il suo Alligatore, Giampiero Rigosi. La caratteristica più comune, oltre a interpretare il periodo storico, è l’attenzione alla scrittura. Siamo legati alla parola. All’umanità, alla contraddizione del personaggio. Al contesto sociale e politico.
Il nome da salvare più di tutti nella storia del noir?
Come modello ho sempre avuto Giorgio Scerbanenco e Duca Lamberti, un personaggio attualissimo. È davvero il personaggio che avrei voluto inventare io. Per il presente se ne scegliessi uno dovrei scartarne troppi.
Parliamo dei suoi personaggi, allora. l’ispettore Coliandro, Grazia Negro, il commissario De Luca. Cosa rappresenta ognuno di loro?
Coliandro è nato in maniera negativa, mi serviva per raccontare, in maniera umorista e caricaturale, le contraddizioni contemporanee. Poi è diventato televisivo e non è più un personaggio letterario. Nella letteratura era cattivo e disperato mentre in tv è passato a un altro mondo. Un altro personaggio disperato, anche se non sembra, è Grazia Negro che vive le angosce non tanto subendole ma osservandole nelle persone attorno a lei. Il commissario De Luca, invece, è quello che vorrebbe raccontare i misteri italiani. È compromesso con il regime fascista ma cerca di dimenticarlo. Assiste a momenti fondamentali della storia italiana, è un osservatore prezioso. Il mio prossimo romanzo sarà con lui. Mi piacerebbe portarlo fin dove è possibile, agli anni 50, 60, per fare con la letteratura quello che ho realizzato in televisione con Blu Notte. Utilizzare un personaggio per raccontare come gli italiani sono finiti nei guai. In fondo scriviamo noir per questo.