«In fabbrica la lotta è vita» – Vanni Santoni sul “Corriere Fiorentino”
di Vanni Santoni – Corriere Fiorentino del 31 gennaio 2024
Della vicenda Gkn, dal suo inizio nel 2021, si è scritto molto, anche fuori dai confini nazionali. Ma forse non si poteva immaginare che arrivasse a ispirare anche un romanzo. S’intitola La fabbrica dei sogni, lo ha scritto Valentina Baronti ed è stato appena pubblicato dall’editore romano Alegre.
Baronti, quella di Gkn è una storia di attualità: perché allora un romanzo?
«La vicenda Gkn è complessa e il racconto dell’assemblea permanente più lunga della storia sindacale italiana avrebbe bisogno di un livello di approfondimento impossibile in un romanzo. Ciò che invece è semplice, è la prospettiva che questa lotta apre, i bisogni a cui risponde, la necessità che ha oggi la classe lavoratrice di riconoscersi e di intravedere la possibilità di costruire un futuro diverso. Credo che questi aspetti sia più facile raccontarli attraverso le emozioni. Per questo ho scritto un romanzo, che parte dalla mia storia personale: vengo da una famiglia contadina e operaia, ho avuto la possibilità di studiare ma i sogni li ho dovuti mettere in soffitta perché la gavetta era troppo lunga e avevo bisogno di guadagnarmi da vivere. In fabbrica ho ritrovato la mia storia, l’orgoglio delle mie origini, la voglia di riscatto sociale. Da quei sentimenti è nato questo romanzo».
Come si è sviluppato il lavoro sul testo fino alla pubblicazione?
«Man mano che la vertenza andava avanti sentivo il bisogno di elaborare le emozioni. Avevo paura. Paura di quella mancanza di futuro che avevo cercato di non vedere negli anni in cui costruivo la mia vita da adulta. Fin da quando ero una ragazzina, quando ho un problema scrivo: lettere, diari, storie inventate. Così ho aperto un file, che cresceva ogni giorno di più. All’inizio erano pagine scollegate tra loro, ma pian piano i personaggi che avevo inventato hanno preso vita e mi hanno dato gli strumenti per affrontare questo momento: è stato un lavoro terapeutico. Poi c’è stato il Festival di letteratura working class, organizzato proprio da Alegre insieme al Collettivo di fabbrica Gkn e alla società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo. Lì ho capito che la mia era un’esigenza diffusa, e che forse quello che avevo scritto poteva servire anche ad altri e non solo a me».
Ancora però siamo sulla realtà, più che sul romanzesco.
«La fabbrica dei sogni è un romanzo epistolare. Sono io che, attraverso delle lettere indirizzate a dei ragazzi, racconto la vicenda della fabbrica attraverso il vissuto di personaggi di fantasia: un operaio e una lavoratrice solidale che prende parte alla lotta. L’attualità s’intreccia coi ricordi della mia infanzia, in un casolare senza acqua potabile né riscaldamento, dove vivevamo come mezzadri. È un continuo rimando tra quello che ero e quello che sono diventata, attraverso gli anni degli studi, il lavoro precario, la rinuncia alla vocazione, la riscoperta della passione politica. Tutto questo mentre la vertenza della Gkn va avanti, con i suoi colpi di scena e le mobilitazioni che si sono fatte realtà in questi anni. È un romanzo costruito attorno a un contrasto: la ricostruzione di una visione collettiva in un momento storico segnato dall’individualismo e dalla grande solitudine delle persone».
Perché la vicenda Gkn ha avuto un effetto così forte sull’immaginario, anche internazionale?
«Quando davanti alla chiusura di una fabbrica, invece di invitare le persone a sostenere la lotta dei poveri operai licenziati, si chiede, con una domanda che poi è diventata uno slogan, “Voi come state?”, si fa un’azione di cura. È da lì che si inizia a costruire una prospettiva diversa, che risponda non solo alla singola vertenza, ma al precariato, alla deindustrializzazione, alla crisi ambientale, all’emergenza bellica, al disastro della sanità, eccetera. È questo che ha reso questa vertenza unica, secondo me. Ed è questo che la rende sempre attuale, perché parla al futuro. Il risveglio di Agata, la protagonista del romanzo, corrisponde al risveglio di una comunità che si guarda negli occhi e sa che niente sarà mai come prima, anche quando tutta questa storia sarà finita».
La fabbrica può essere ancora un luogo di elaborazione teorica, in un Occidente che tende a pensarsi deindustrializzato?
«Per anni, leggendo i giornali e ascoltando i talk show, mi sono chiesta: “Ma di chi si alza la mattina e va a lavorare non parla più nessuno?”. Poi è arrivata la Gkn e il discorso è cambiato: il tema del lavoro è tornato di moda. Ora, non credo possa bastare una fabbrica a riempire un grande vuoto teorico come quello attuale, però già il fatto che partendo dal lavoro si siano aperte prospettive in così tanti ambiti, la dice lunga sulla capacità operaia di elaborazione».
Nel libro è forte anche la traccia del sogno.
«I sogni guidano la protagonista, Agata, nel turbine delle emozioni. Danno un senso alla sua vita, la aiutano ad immaginare quello che non viene detto, tutti i sentimenti che non si ha il coraggio di accogliere. E diventano così il simbolo di un sogno collettivo, di una lotta che si fa vita, di un’alternativa che può aiutare i giovani a orientarsi. Quelle ragazze e quei ragazzi che in questi anni ho visto intervenire alle assemblee, sfilare tenendo gli striscioni, urlare nei megafoni, ridere e piangere. I sogni sono l’abbraccio intergenerazionale che ci può guidare nella costruzione di “una vita bella”, per riprendere un altro dei tanti slogan che in questi anni sono passati da una lotta all’altra».