La disuguaglianza non ha voce

In un’epoca in cui l’1% delle persone più ricche possiede più del doppio della ricchezza di quasi sette miliardi di persone,e in cui Bezos, l’uomo più ricco del mondo, secondo un recente studio di «Forbes», può contare su un patrimonio triplo rispetto a quello di Paperon de’ Paperoni e quadruplo rispetto al drago Smaug dello Hobbit, due personaggi inventati per incarnare un grado di ricchezza paradossale, un po’ stupisce la relativa carenza di romanzi che raccontino quest’era di disuguaglianze.
Come faceva notare in una recente e accorata intervista al «Guardian» la romanziera Jessica Andrews, il cui romanzo d’esordio Acqua salata, pubblicato in Italia da NN editore, nasce proprio dalla preoccupazione circa «la scomparsa delle storie di proletari dal mainstream», sempre più scrittrici e scrittori vengono da un coté borghese o piccolo-borghese,e questo ha un riflesso diretto nelle vicende raccontate e rappresentate. Qualche anno prima, sempre dall’Inghilterra, Kit de Waal, autrice di Il mio nome è Leon (Piemme, 2017) lanciava lo stesso allarme, intimando agli editori di «fare spazio alla narrativa working-class», o il racconto di una parte decisiva della società occidentale sarebbe rimasto nell’ombra.
Negli Stati Uniti recenti la questione di classe è arrivata nel romanzo (quando è arrivata) agganciata a quella di razza – si pensi ad esempio all’opera di Junot Díaz o a quella di Colson Whitehead – ma restando sempre sottomessa all’egemonia del «romanzo borghese»,mentre in Italia, come in molti Paesi dell’Europa occidentale, ha fatto solo capolino qua e là – vengono in mente Acciaio (2010) di Silvia Avallone, ambientato nella Piombino operaia, o 108 metri (2018), non a caso sottotitolato The new working class hero, di Alberto Prunetti, o ancora il leggendario Cristi polverizzati (2009) dell’operaio esule Luigi Di Ruscio -, è ancora l’Inghilterra, nonostante tutto, il Paese da cui arriva la miglior rappresentazione delle disuguaglianze sociali in chiave narrativa.
Sarà l’influenza inestinguibile di Dickens, ma se si parla di letteratura della disuguaglianza, il Regno Unito è ancora il luogo a cui guardare.È accaduto nei fumetti, con Alan Moore; è accaduto e accade nella narrativa di genere, con quel China Miéville che, nel rivitalizzare il genere weird, non ha mai dimenticato l’ingrediente della lotta di classe. Lo hanno fatto John Lanchester col suo Capital (2012) e il Nobel Kazuo Ishiguro in Quel che resta del giorno (1989), due racconti, quasi opposti nell’approccio, di uno stesso Regno Unito in cui il solco tra le classi diviene ogni giorno più netto. Lo faceva, almeno fino allo scorso libro, la Sally Rooney di Persone normali (2018). Lo ha fatto, in modo anche più netto dei suoi predecessori, l’ultimo Booker Prize, il Douglas Stuart di Storia di Shuggie Bean (2020, uscito da noi per Mondadori nel 2021), ambientato nella Glasgow in crisi del 1981.
Arriva, infine, sempre dal Regno Unito quello che è forse il miglior libro sulle disuguaglianze sociali degli ultimi anni: Chav (2020) di D. Hunter. Il sottotitolo è Solidarietà coatta (il titolo originale è direttamente Chav Solidarity), onde far intendere al lettore italiano il senso del lemma «chav», dotato di un preciso sottotesto carico di disprezzo classista. In Italia lo pubblica la casa editrice militante Alegre (incidentalmente la traduzione è proprio di Alberto Prunetti) ed è, tra ciò che si trova oggi in libreria, forse l’unico libro a dire chiaramente quello che pare esser diventato un tabù delle narrazioni contemporanee: non c’è nulla di oleografico o romantico nella povertà e nella disuguaglianza sociale,ma solo rabbia… e conflitto a venire.
Nell’immagine: GianMarco Porru (Oristano, 1989), «Maledetta» (2019, 3-channel video installazione, particolare). È una delle opere in mostra fino al 28 novembre al Palazzo Re Rebaudengo di Guarene (Cuneo) per «Badly Buried».