L’ignoto delle rivoluzioni
La leggenda dice che Lenin si mise a ballare sulla neve quando furono trascorsi 72 giorni dalla Rivoluzione russa. Un giorno in più della durata della Comune di Parigi. A 140 anni di distanza l’esperienza della Comune, la prima rivoluzione del proletariato urbano, mostra ancora tutto l’interesse e l’importanza che hanno gli avvenimenti che rompono il corso ordinario dei sistemi politici e delle società.
La pubblicazione di Inventare l’ignoto – Edizioni Alegre, 2011 – con i documenti della prima Internazionale, il carteggio Marx-Engels, più altre lettere di Marx sulla Comune, un lungo saggio introduttivo di Daniel Bensaid e un’utile cronologia finale degli avvenimenti sfugge a qualsiasi operazione celebrativa o commemorativa. Nel saggio di Bensaid la Comune è letta mediante i problemi che ha posto, le questioni non risolte, gli spazi sociali e i tempi politici – perlopiù ignoti -che sono stati generati e aperti da quella rivoluzione. Le rivoluzioni sono sempre avare di tempo. Non avvengono mai all’ora desiderata ma sempre troppo presto o troppo tardi. Sono dilaniate tra il “non più” e il “non ancora” in cui si intrecciano e sovrappongono i compiti del presente, del passato e dell’avvenire. E se lo scarto tra un dominio borghese che non c’è più e un nuovo ordine sociale che non c’è ancora diventa troppo ampio, ecco che può sopraggiungere la tragedia: la rivoluzione al contrario con il partito che diventa Stato e allo stesso tempo si autoproclama avanguardia indiscussa del proletariato (o dell’elettorato). Un doppio movimento che ha sempre accomunato, pur con valenze evidentemente diverse e in modo più o meno consapevole, l’esito necessitato dei gulag nelle politiche staliniane e l’impossibilità concreta del superamento del sistema capitalistico nelle politiche riformiste. Bensaid affronta la vicenda della Comune di Parigi tenendo sempre ben presente ciò che è accaduto prima e dopo, collocando gli avvenimenti in un contesto che ha come origine la rivoluzione mancata del 1848 e si estende fino ai primi decenni del ‘900. Lo fa ripercorrendo il testi politici di Marx, la trilogia sulla Francia: Le lotte di classe in Francia, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte e La guerra civile in Francia. Dai quali emerge che la concezione della politica in Marx non è per nulla determinista, non è subordinata in maniera ferrea alla struttura economica, come molti, troppi, hanno sostenuto anche all’interno di quel che è stato definito, con parecchie tragiche forzature, “movimento comunista internazionale”. La politica per Marx possiede cicli, ritmi e temporalità che le sono propri. Tra la dimensione politica e quella sociale dei soggetti e degli avvenimenti c’è un gioco in cui il simbolico e l’immaginario hanno la loro parte.
Se la politica ha queste caratteristiche, che cos’è allora la rivoluzione ? Marx ne Le lotte di classe in Francia e nell’Indirizzo alla Lega dei Comunisti parla di “rivoluzione in permanenza”. Bensaid approfondisce il concetto alla luce anche degli scritti successivi di Marx e dei documenti della Prima Internazionale. La rivoluzione in permanenza di Marx è la rottura del modo di produzione capitalistico che, nel momento in cui avviene, lega l’atto rivoluzionario con il processo di trasformazione sociale, l’istante e la durata, l’avvenimento e la storia. Le rivoluzioni non evolvono in modo lineare, sono incostanti, soggette a metamorfosi tanto da far dire a Marx: “ Il nome sotto il quale una rivoluzione è impegnata non è mai quello ch’essa porterà sulla sua bandiera il giorno del trionfo”. Siamo qui piuttosto lontani anche dalla stessa concezione di “rivoluzione permanente” di Trotskij. Su quel che intendevano per rivoluzione ad esempio Bucharin, Stalin e compagnia e meglio stendere un velo. La “rivoluzione permanente” di Trotskij risente in modo pesante di un approccio essenzialmente militare, astrattamente lineare, quasi fosse un destino segnato (1). Va da sé che diverse concezioni della rivoluzione implicano diversi percorsi organizzativi dei soggetti politici che si pongono il problema del rovesciamento del sistema capitalistico.
Ma, da questo punto vista, che accade a Parigi tra il marzo e il maggio del 1871? Si comincia con provvedimenti che separano lo Stato dalla Chiesa, si distruggono le ghigliottine, vengono liberati i prigionieri politici, si vieta il lavoro notturno dei panettieri, gli stranieri hanno diritto a un seggio alla Comune, il controllo dei servizi pubblici passa dallo Stato alla Comune, si sopprime l’esercito e lo si sostituisce con il popolo in armi. La “rivoluzione in permanenza” conquista spazio, la rottura rivoluzionaria è possibile leggerla solo se coniugata alla trasformazione sociale. Una trasformazione che, con la Comune, pone i grandi interrogativi sul deperimento dello Stato, sulla natura della dittatura del proletariato, sulla democrazia diretta. Bensaid, partendo da Marx, lega in modo indissolubile la questione dell’abolizione, deperimento, estinzione dello Stato e la definizione della dittatura del proletariato. Marx, con molto ottimismo, parla di un potere dello Stato ormai abolito nelle sei settimane di vita della Comune. Bensaid, a differenza di Marx, per riflettere su quell’intreccio di problemi ha maggior materiale a disposizione: le rivoluzioni del ‘900, le guerre imperialiste, il tragico fallimento del socialismo reale, l’attuale globalizzazione capitalistica. Con le rivoluzioni lo Stato viene abolito, deperisce o si estingue ? Non è una questione terminologica, lo Stato non si abolisce nè deperisce per decreto. Lo stesso Lenin, in Stato e rivoluzione, sembra che a volte assimili il deperimento dello Stato con il deperimento della politica a vantaggio di una supposta razionale “amministrazione delle cose” al di là dello Stato e della politica. Bensaid mette in guardia da un approccio che vede il deperimento dello Stato come assorbimento di tutte le sue funzioni nell’autogestione sociale, e ancor meno in una semplice politica amministrativa. Alcune funzioni centrali continueranno ad esistere come funzioni pubbliche sotto il controllo popolare. Il deperimento dello Stato quindi non significa estinzione della politica nella gestione razionale del sociale. Significa piuttosto l’estensione della lotta politica attraverso la permanente messa in discussione della cosa pubblica.
La politica continua anche dopo la rivoluzione. Non potrebbe che essere così altrimenti la dittatura del proletariato diventerebbe, come purtroppo è diventata in tutti i paesi in cui è stata proclamata, solo esercizio autoritario del potere di un partito che si è identificato con lo Stato. E’ vero che il significato del termine di dittatura ai tempi di Marx e della Comune rimandava più a uno stato di eccezione temporaneo in riferimento alla Repubblica della Roma antica. Oggi non è più così. La relazione tra le parole e le cose cambia con il mutare dei contesti sociali, delle esperienze politiche, della composizione di classe, degli immaginari e del significato che storicamente si è affermato. Per Marx e per gli insorti della Comune la dittatura della classe operaia significava suffragio universale, elezione diretta dei propri rappresentanti che percepivano lo stipendio di un operaio qualificato, erano revocabili ed avevano un mandato imperativo. Quest’ultimo aspetto, il mandato imperativo, per Bensaid è foriero di contraddizioni. Se i rappresentanti sono rigidamente soggetti al mandato imperativo dei rappresentati, senza possibilità di modificare il loro punto di vista in base alla discussione allora c’è il rischio di una semplice addizione di interessi particolari o corporativi che tendono a neutralizzarsi. Lenin, infatti, in Stato e rivoluzione parla di principio di responsabilità e revocabilità dei rappresentanti ma non di mandato imperativo. Questione tuttora aperta che rimanda alla necessità di pensare ad ambiti di democrazia diretta in cui ci sia un confronto e uno scambio continuo tra rappresentanti e rappresentati. A nulla vale evocare modelli o formulette del passato. La sovranità popolare attraverso la democrazia diretta, dice Bensaid, non è un’istituzione o un regime ma l’esercizio inalienabile del potere costituente, detto in modo diverso: una dinamica democratica e una strategia sovversiva espansiva. La democrazia diretta è intesa come democrazia politica, elemento strategico di trasformazione, e non come il modello migliore di democrazia tra i tanti storicamente possibili. La politica odierna, notevolmente diversa e in profonda crisi rispetto a quella della Comune, tende a diventare tecnica comunicativa, culto del fatto compiuto, ragion di Stato per cui diventa necessario praticarla tenendo conto che : “le condizioni spaziali e temporali dell’azione politica cambiano per effetto della mondializzazione liberale. Tra l’illusione politica che fa della democrazia di mercato l’orizzonte insuperabile di una storia allo stremo, e l’illusione sociale che pretende di preservare i movimenti d’emancipazione dalle impurità del potere , si apre una strada angusta. Per potere incamminarsi su questa via la messa a punto di un nuovo lessico politico diventa una posta in gioco essenziale.”
Il tempo strategico della politica è pieno di accelerazioni improvvise ed altrettanto improvvisi rallentamenti, di rimbalzi, sincopi e controtempi. La Comune, nella sua pur breve vita, è stata un concentrato di questi tempi che hanno sovvertito l’ordine sociale. Non è un caso che la repressione sia stata di una ferocia inimmaginabile.
La Comune ha spezzato tempi politici consolidati, riconfigurato spazi sociali cristallizzati. Tanto è vero che la borghesia francese evocherà in continuazione lo spettro della Comune durante il Fronte Popolare del 1936, dopo la lotta di liberazione dai nazisti e durante lo sciopero e le barricate del maggio del ’68. Una città che insorge non è più la stessa. Per citare Guy Debord, la “distruzione di Parigi” – espressione situazionista per indicare rivolte e rivoluzioni – non ha soltanto delle implicazioni strategiche. Essa modifica il rapporto percettivo, affettivo, immaginario nei confronti della città. E tra i cittadini, aggiungiamo noi.
(1) “Questa lotta [di classe su scala nazionale e internazionale], dato il predominio decisivo dei rapporti capitalistici sull’arena mondiale, condurrà inevitabilmente a eruzioni violente, che acquisteranno la forma di guerra civile all’interno e di guerra rivoluzionaria all’esterno. In ciò consiste il carattere permanente della rivoluzione socialista stessa, a prescindere dal fatto che si tratti di un paese arretrato, che abbia appena compiuto la sua rivoluzione democratica, o di un vecchio paese capitalista, che sia già passato attraverso un lungo periodo di democrazia e di parlamentarismo” L.Trotskij, La rivoluzione permanente, Milano, 1973, p. 199