Lo “sporco” lavoro di una cronista di nera
Si potrebbe chiamare narrazione tossica, ma è solo stampa trash. Quell’insieme di trappole che regolano l’universo dell’informazione nera, giudiziaria e scandalistica, su alcune riviste: i sottoprodotti di Cronaca vera. Ce lo racconta Selene Pascarella in Tabloid Inferno. Confessioni di una cronista di nera (Alegre, 256 pagine, 15 euro), in cui si svelano tutti i meccanismi narrativi della “cronacaccia” della serie “sangue&sesso”. Il nuovo libro della collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1 è il frutto dell’esperienza della giornalista Pascarella che per quattro anni ha esplorato dall’interno il funzionamento della cronaca nera in Italia come freelance di tabloid di serie Z. In silenzio, con vergogna, ma consapevolezza. «Ho fatto i conti con un mestiere esercitato in apnea, tra la giusta riprovazione di chi mi voleva bene e l’ossessione per una vocazione seguita solo su strade secondarie, battendo codici segreti che nessun corrispettivo economico avrebbe mai reso accettabili. È stato anche un modo per liberarsi dalla vergogna, dalla frustrazione. Autodenuncia. Un modo per fare i conti: partendo dalla mia esperienza e non dagli errori degli altri. Cioè, mettendoci la faccia».
Come se questo libro fosse una terapia per cronisti di nera dipendenti. «Il problema chiave, è che non viene trattata come dovrebbe essere trattata. La cronaca nera è lo specchio del nostro mondo, della nostra società, di quello che siamo diventati e delle vie che stiamo percorrendo. Da lì bisogna partire per scoprire le verità sul mondo», racconta Selene. E nel calderone narrativo, il suo compagno d’armi Potito e il loro magister Senpai, mostri-cronisti.
Capolavori pulp a colpi di titoloni sensazionali e foto scabrose, Tabloid Inferno è il resoconto fedele di quell’esperienza. Nel libro viene fuori anche una verità fondamentale: nella stagione del ciclo produttivo infinito della notizia e del giornalismo diffuso 2.0 il redattore specializzato in cronaca nera è una specie di ultimo dei Mohicani. Un segugio che punta sui contatti diretti con le fonti (questura, legali, esperti forensi, anatomopatologi) più che sui lanci di agenzia, e bussa ancora alle porte di testimoni e protagonisti. Tutto ciò consente che i colleghi della carta stampata siano ancora gli indiscussi protagonisti della nera proprio mentre social network e testate online sembrano averli relegati in un angolo. Se i media online scavalcano la televisione e i giornali con aggiornamento continui e in tempo reale, quasi sempre si limitano a megafonare notizie di prodotti editoriali cartacei e trasmissioni del piccolo scherma generalista. I lanci “acchiappa click” che generano traffico, trend topics e ritorno economico, sono a ricalco di testate come Chi e Giallo dipendono dalle redazione televisive di Chi l’ha visto? e Quarto grado? In poche parole, dinosauri dei vecchi media. «Tra un pezzaccio e l’altro mi dibattevo in mille elucubrazioni. L’industria culturale mi aveva masticata e sputata via. Una parte di me avrebbe voluto seppellirsi viva. L’altra, cresciuta a manga e scuola di Francoforte, ostentava un alto grado di coolness. Ho imparato che nessuno è immune da una narrazione malata, ma ben costruita».
Soprattutto si impara che oggi questo mondo delle notizie è fatto anche di produzioni editoriali portate a termine senza una struttura giornalistica vera e propria. E che i gruppi editoriali hanno due vie per ottimizzare le risorse interne e ridurre i costi del personale. La prima via è la sinergia: quotidiani che fanno capo allo stesso editore mettono in comune competenze, contenuti e risorse umane. Spesso sono gli stessi gli editori, ma anche i grafici, i redattori e i collaboratori. «Io per esempio ho scritto per ogni sottogenere di ghost magazine. In alcuni momenti, concentrata a produrre tre, quattro riviste contemporaneamente nell’arco di due settimane, ho temuto di incrociare i flussi, mettendo Violetta al centro di una torbida storiaccia di sesso, ricatti e omicidi e trasformando i membri del gruppo pop 5 Seconds of summer in alieni venuti dallo spazio per distruggerci». La seconda via si basa sul lavoro dei service, redazioni che producono materiale per conto terzi. Una testata paga per avere prodotti “chiavi in mano” pronti per andare in stampa. «Per quattro anni io ho fatto parte di un service informale basato sul principio del subaffitto. Sottopagata a dieci euro al pezzo. L’ennesimo esempio di guerra fra poveri, dove chi è più disperato abbassa ogni giorno l’asticella dei diritti per tutti», racconta. E allo stesso tempo il tentativo di un’alleanza tra precari spremuti dal sistema. Un sistema assurdo e geniale, che racconta alla perfezione la crisi del settore dell’informazione. Un lavoro ridotto a mestieranza grottesca. «E quando le parole danno da vivere anche uno sporco lavoro può essere fatto molto male o molto bene. Basta non cadere nelle trappole del cattivo giornalismo: inseguire la notizia, non lasciare il tempo di sedimentare e tempo per esaminare i documenti. Ma soprattutto basta poco per passare dal sogno della stampa che svolge una funzione di sorveglianza contro l’illegalità, secondo una definizione anglosassone, alla militanza nell’informazione di serie Z». Questa è la trappola più grande.