L’orrore a Bitonto, il giallo dei bambini annegati nei pozzi

da Repubblica Bari
C’erano una volta cinque bambini che presero a dormire per sempre nel fondo di un pozzo. Sembra l’incipit di una favola nera, invece è una storia vera, avvenuta a Bitonto tra il settembre del 1971 e il giugno del 1972. I bambini si chiamavano Adolfo, Giuseppe, Concetta, Incoronata e di nuovo Giuseppe. Il più piccolo contava trenta giorni, la più grande quattro anni. Vennero trovati annegati nelle cisterne in disuso che punteggiavano il quartiere malfamato in cui vivevano. Le loro famiglie erano tutte intrecciate, imparentate, costrette a condividere un destino di miseria nel dedalo di poche vie, accatastati tra quattro mura. Anche per questo e, non solo per questo, sui loro corpi bagnati dal freddo della morte pianse l’intero quartiere, ogni casa del paese.
Un paese normale, per niente famoso, la loro Bitonto. Non troppo piccolo né troppo grande, provinciale come tutti, volenteroso di proiettare l’anima agricola verso un futuro moderno, al pari di tante altre cittadine d’Italia negli anni dopo il boom. Tutti i paesi felici si assomigliano, ogni paese toccato dalla cronaca nera è infelice, maledetto, guastato a modo suo. Così anche Bitonto aveva il suo personalissimo inferno, un buco nero proprio nel centro storico, da troppo tempo svuotato dai signori, un segreto di cui non parlare. Un segreto difficile da tenere a bada, fatto com’era di carne, teste, lingue e gambe, di persone in-somma. Uomini, donne (e bambini, tantissimi bambini) che i cristiani per bene chiamavano truscianti e che con questo nome entrarono da un giorno all’altro, a cavallo dei quotidiani, nelle case e sulla bocca di una nazione di cui si sentivano a malapena parte e per la quale non erano mai esistiti.
Truscianti ovvero dediti al truscio, al furto con destrezza, venditori di fortuna, campioni di ogni sorta di stratagemma, accattoni, occupatori abusivi di case, conoscitori dei bassifondi e frequentatori assidui del collo di bottiglia. E dal giugno del ’72, quando fu ritrovato il quinto cadaverino annegato in nove mesi, assassini. Forse qualcuno o magari tutti, per estensione, connivenza e omertà. Perché, così decise il tribunale della pubblica opinione, a Bitonto e anche più a nord, se un responsabile c’era, per uno o per tutti e cinque i delitti dei “bimbi nei pozzi”, andava cercato nella cerchia parentale, nel ghetto dei truscianti. Che non avrebbero mai parlato, aiutato la giustizia. Per il primo piccolo deceduto si prese a sospettare della mamma, per il secondo di due cuginetti, di appena dieci e dodici anni d’età. Dopo il duplice annegamento delle bambine si diede per colpevole certo lo “zio mostro”, l’ultimo piccolo angelo, dal paradiso, sembrò puntare il ditino verso la nonna, grande, grossa e spaventosa, detta “la nonna belva”, la “nonna terribile”. E nel mezzo ci fu ogni sorta di colpevole, adulto, ragazzo e bambino, che fu possibile trovare. Poi venne il silenzio che attende la giustizia e con molto meno clamore furono scritte, in tre di versi procedimenti, tre sentenze di assoluzione. Chi avesse annegato i bimbi dei truscianti rimase un mistero, il caso dei pozzi divenne “il giallo di Bitonto” e cadde nell’oblio.
Non ricordo in maniera netta la prima volta che ho sentito questa storia. Posso fare delle supposizioni: ero giovane e talmente impermeabile al concetto di morte da dedicarle la mia tesi di laurea in cinematografia. Un capitolo parlava anche del film Non si sevizia un paperino, del regista Lucio Fulci, ispirato alla storia dei bimbi morti a Bitonto. La seconda volta, invece, è scolpita nella mia memoria. In un afoso pomeriggio dell’estate 2018, era in corso con i miei un’accesa discussione sull’attore Marc Porel. Si era finiti a parlare proprio della pellicola di Fulci, di cui era stato protagonista con Tomas Milian, Florinda Bolkan e Barbara Bouchet, quando una domanda mi aveva presa a bruciapelo: «Ci racconti di più di questa storia di Bitonto?». Anni di militanza nel settore della cronaca nera mi avevano resa il punto di riferimento quando si trattava di spiegare moventi, alibi e dinamiche criminali. E ora venivo colta del tutto impreparata. Sapevo che qualcosa era accaduto, ma cosa, esattamente? Perché non ne avevo mai scritto, perché, soprattutto, nessuna delle testate specializzate in cold case, gialli irrisolti del passato, aveva dedicato una riga a un fatto così eclatante? Magari la serie di infanticidi, per quanto clamorosa, era rimasta confinata nella cronaca locale. Finite le vacanze ho fatto ricerche puntigliose, imbattendomi in un articolo on line del 2012, scritto da un cronista di Bitonto, a quarant’anni esatti dalla morte dei cinque bambini nei pozzi. In poche righe sono venuta a conoscenza dello zio snaturato e della nonna terribile, ma soprattutto ho realizzato la risonanza innegabile del caso. Tra la primavera e l’estate del 1972 il giallo dei pozzi aveva tenuto banco sulle testate locali, ma anche i grandi quotidiani nazionali, dal Corriere della sera a La Stampa, e quelli politici, l’Unità e persino Lotta Continua, avevano mandato inviati e attivato i corrispondenti sul posto.
Ai pozzi era stata dedicata un’approfondita puntata del programma di Raiuno Az – Un fatto come e perché, con Giuseppe Marrazzo e Tina Lepri e il magazine Epoca aveva pubblicato un reportage fotografico dal titolo potentissimo, Il diavolo a Bitonto. Concentrandomi sull’articolo del 2012 mi sono resa conto che era stato firmato, oltre che dell’autore, dall’intera redazione. Il motivo mi è stato spiegato al telefono dal collega bitontino: la pubblicazione era stata seguita da una fulminea “raccomandazione” telefonica, «Tu di questa cosa non devi più scrivere!». Una minaccia che aveva reso necessaria la tutela del direttore e testimoniava quanto fosse ancora vivida la dolorosa memoria dei pozzi. Senza offrire, però, spiegazioni o motivazioni. Sollevando, piuttosto, altri interrogativi. Chi non voleva si tornasse a parlare di quel mistero aveva avuto un ruolo nella vicenda? Era un testimone, un parente delle vittime o di chi era stato coinvolto nell’inchiesta? Nessuno, nemmeno il cronista colpito sembrava poter offrire un’interpretazione certa. Ma la minaccia in sé offriva una chiave di lettura, il silenzio calato sui pozzi era il segno di un coinvolgimento viscerale, di una paura difficile da gestire, non del disinteresse.
Per capire perché quei cinque cadaveri bambini, che così tanto avevano sconvolto l’opinione pubblica a Bitonto e nel resto d’Italia, fossero stati dimenticati, ho iniziato a scrivere, prima una web serie a puntate, poi un romanzo “ibrido” sulla loro storia. Titolo: Pozzi. Il diavolo a Bitonto. Immersa nelle cronache giornalistiche dell’epoca, mi sono trovata di fronte a un intreccio, uno gnommero, per dirlo alla Gadda, del tutto inestricabile. A così tanti anni dai fatti era impossibile recuperare nuove testimonianze attendibili. L’analisi incrociata dei testi giornalistici evidenziava contraddizioni, errori di prospettiva, fallacie logiche. Le sentenze, per quanto capaci di separare con nettezza i fatti dall’immaginazione su di essi, non fornivano certezze sulle responsabilità e persino sul movente e sulla dinamica delle morti. Non restava che accettare il mistero, farlo rivivere con i suoi lati oscuri, insondabili. Provare a trarne non una morale, una verità con la maiuscola, ma un metodo, un approccio critico, valido per il giornalista e per il pubblico che lo legge, fondato su una sola certezza: le cronache che si presentano in forma di fiction (come il mio (non)romanzo sui cinque bimbi annegati) non hanno niente da offrire ma ci rubano la capacità e la voglia di fare i conti con la complessità del reale. Senza le quali siamo come Esselio, l’oscuro narratore di Pozzi, giornalista mutante, metà lupo e metà colonna di quotidiano, un fantasma che si agita in acque senza fondo.