Monicelli, l’ultima zingarata
“Cercate almeno di morire da omini”. “E lo chiami morire da omini questo”. Se non fosse che né il sottoscritto né Mario Monicelli credono a qualcosa dopo la morte – che non sia terra umida -, sarebbe bello pensare a Gassman e Volontè che sfottono superMario davanti a Signora Morte. Proprio nell’Armata Brancaleone l’aveva scritturata, beffandola più volte, anche se poi si portò via Abacuc. A noi, che lo conoscevamo, piacerebbe pensarlo volare da quel balcone urlando “Io so io, e voi nun sete un cazzo”, come il suo Sordi ne Il marchese del Grillo. Ma era troppo modesto, pur se consapevole del suo talento e del suo gran caratteraccio, la sua umiltà gliel’avrebbe impedito. Forse, è più facile che abbia sussurrato “Sono un vigliacco”, con la fierezza dell’Alberto Sordi che ne La grande guerra (il suo unico Leone d’oro, la sua unica nomination all’Oscar) sa che sta morendo da eroe. Oppure, essenziale e diretto come sempre, si sarà buttato in questa nuova avventura senza fronzoli.
E, scusate se non ho ancora parlato di cinema, ma sono incazzato nero. E allo stesso tempo orgoglioso di un uomo che ho amato come regista, apprezzato come oratore e di cui conservo un ricordo umano che cozzava con il suo finto (e un po’ vezzoso) cinismo.
Incazzato nero perché se Manoel De Oliveira – Alessandro De Simone, un critico con il suo senso dell’umorismo, sospetta che dietro il suicidio ci sia in verità il regista portoghese: battuta geniale che sarebbe piaciuta al cineasta viareggino – ancora regala film preziosi, con uno Stato diverso, capace di tutelare il suo patrimonio culturale, anche Monicelli avrebbe potuto donare a noi, ingordi di lui, altri gioielli. E invece ci ha lasciato con un film monco, non riuscito come Le rose del deserto. Storse il naso alla mia stroncatura, ma sapeva che lì qualcosa non andava: troppi 5 anni per riuscire a farlo, per una mente veloce, geniale, pronta come la sua.
Orgoglioso perché in uno stato bigotto come il nostro, l’uomo non ha diritto di vivere come vuole, figuriamoci di morire come desidera. E lui, da regista consumato, ha beffato tutti. Si è dato una morte violenta, ma dolce allo stesso tempo: un colpo di scena, un finale ad effetto. All’altezza di chi diceva “su Welby scriverei una commedia. Ridicolizzando chi pretende che lui soffra in nome e per grazia di non si sa chi”.
Voleva essere ricordato come un rompiscatole. L’aveva detto ad Antonello Piroso, a Niente di Personale, nel 2007. Una splendida intervista tra due che non amano mandarle a dire, più simili di quello che potevano immaginare, essenziali e ambiziosi, nel pensiero e nell’analisi. E lo eri, Mario, nessuno poteva tirarti per la giacca: a Raiperunanotte hai sferzato quell’Italia che hai saputo raccontare più e meglio di ogni altro, e hai paventato, tu giovane 95enne, una rivoluzione necessaria. E con la stessa lucidità guardavi all’opposizione, avvilente. Contavi solo sui giovani, che ti facevano arrabbiare “perché dovevano muoversi, reagire”. Al Biografilm, l’ultima volta che t’ho visto di persona, ancora agilissimo e vivace, eri a tuo agio: tutti giovani, intelligenti, reattivi. Come piacevano a te.
Non ti piacevano le celebrazioni. Non hai voluto funerali. La camera ardente alla Casa del Cinema era doverosa, ma tu avrai sorriso. Scherzavi spesso sul fatto che sarebbe toccato anche a te e curiosamente, forse, è stata l’ultimo grande evento della gestione Laudadio, tuo grande amico che nel suo Festival, a Bari, ti ha anche intitolato un premio da vivo, il Premio Mario Monicelli alla regia. Ma c’è da giurarci che a te sia piaciuto di più il “Bella ciao” cantato dal tuo quartiere, Monti. Era il più vicino a quel funerale con “militari e puttane” che volevi per il Perozzi, in Amici Miei. Quello per cui Federico Micali, un bravo regista, ha ideato il corto L’ultima zingarata, un omaggio popolare prima che cinematografico a uno dei tuoi capolavori. E già, perché ne hai fatti tanti. Ora che sei morto, posso dirtelo senza che ti schernisci, storci la bocca, t’arrabbi: eri un caro fottutissimo maestro. Non voglio ripassare in rassegna le tue opere, dimenticherei sicuramente qualcosa. Posso dire che sapevi tirar fuori il meglio da tutti: Sordi ti deve le sue più belle interpretazioni, da La grande guerra a Un borghese piccolo piccolo, Gassman un’umanizzazione del suo arrogante e strabordante talento, Totò la consapevolezza di essere più dell’avanspettacolo in cui volevano rinchiuderlo. Eri un cineasta profondamente politico: I compagni, nel 1963, ci disse molto della lotta di classe, senza ideologie ma con una spinta ideale e umana che rimane ancora negli occhi e nel cuore di chi ha visto quel film. I soliti ignoti è un modello per tutte le cinematografie, ancora oggi lo imitano a ogni latitudine. E ancora Romanzo popolare, Vogliamo i colonnelli, Speriamo che sia femmina. Nel tuo percorso, verrebbe da dire, quasi dei film minori. Ma solo perché ne hai fatti di migliori: sono gioielli di bellezza assoluta. Haber ti ha salutato dicendo “che sono convinto che dei posteri bisogna fregarsene, ma per Mario non è vero: rimarrà per sempre, il suo cinema è un pezzo della nostra Storia”. E commosso ha ricordato un vostro Trastevere- Monti in motorino. Due anni fa! Placido ha detto, semplicemente, che “dopo Fellini, c’è lui”. Ecco, da critico cinematografico, mi permetto di dire che il tuo cinema sociale e socialista (nel senso più alto e nobile del termine), il tuo occhio clinico più che cinico, la tua lucidità visiva e narrativa, la tua (tragi)comicità, per me, sono al primo posto. La commedia all’italiana è un genere perché ci sei stato tu.
E, se permetti, facci sapere chi ha vinto la scommessa tra te e quell’altro insopportabile geniaccio di Dino Risi.