Mutualismo, l’alternativa è «far da sé pensando»
Riacquistare credibilità politica, a sinistra, rovistando nella cassetta degli attrezzi tardo ottocentesca del mutualismo. Rispolverare gli strumenti dell’autogoverno, del «fare da sé», della condivisione, con lo scopo di trasformare la società e non per rifugiarsi in «isole felici». Recuperare il concetto di solidarietà – a lungo ridotto e svilito da chi vorrebbe farlo coincidere con la carità cristiana -, da non intendersi come semplice «tendere la mano», bensì come ideologia che «implica una nuova rappresentazione del legame tra sociale e politico, che porta a una profonda trasformazione dei modi di gestione del sociale e delle forme di intervento pubblico». La definizione in questione, avanzata dal giurista Stefano Rodotà, rappresenta uno dei fondamenti della proposta politica che Salvatore Cannavò, ex deputato di Rifondazione e direttore centrale news de Il Fatto quotidiano racchiude in Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018).
Una proposta che – in tempi in cui la «solidarietà» viene trasformata in reato, da usare come clava contro chi salva i migranti dalla morte in mare – suona subito come degna di nota. E che, secondo l’autore, si è fatta sempre più indispensabile se si vuole oltrepassare la crisi della sinistra e del movimento operaio. Una crisi che Cannavò fa risalire al 1976, data simbolo, l’anno del «compromesso storico» e della «politica dei sacrifici» inaugurata dalla Cgil di Luciano Lama. E che è legata a doppio filo al declino di quel “modello tedesco”, divenuto egemone a inizio Novecento, che ha individuato nei partiti e nei sindacati tradizionali gli strumenti base dell’intervento politico nella società. Strumenti che, oggi, perdono colpi e girano a vuoto.
«Se vogliamo trovare una soluzione, dobbiamo andare a ritroso, per recuperare ciò che chiamo “codice sorgente” del movimento operaio. Bisogna ritornare lì dove tutto è cominciato», spiega Cannavò a Left. Una riscoperta delle origini che porta a dismettere – quantomeno parzialmente – la forma partito, e valutare con attenzione la storia delle società di mutuo soccorso e delle cooperative della seconda metà dell’800 (che con l’odierna Legacoop hanno davvero poco con cui spartire). Dalle società operaie italiane, fino alle esperienze oltre confine. Nella Casa del popolo di Bruxelles nel 1905 – solo per fare un esempio – si «producevano dieci milioni di chili di pane all’anno», con cui sfamare i lavoratori e sostenere gli scioperi. Nelle realtà come queste, la «fraternità» era la miccia per attività di sostegno economico per l’istruzione dei figli, la malattia, l’accesso al credito, ma anche fulcro di relazioni umane, di vita vissuta insieme dopo il lavoro, di spensierato tempo libero e di confronto intorno alle comuni condizioni di sfruttamento. Una esperienza che, in Italia, si è sviluppata a cavallo tra filantropia mazziniana e socialismo marxista.
E che, negli ultimi anni, è tornata vitale grazie alla fioritura, solo per fare qualche esempio, di movimenti contadini, cooperative di distribuzione, collettivi di migranti, sindacati di base, cliniche legali, occupazioni abitative, cucine popolari. Strutture che, in tempi di atomizzazione delle esperienze di lavoro, rendono meno utopica l’ipotesi di una ricomposizione di classe.
Trenta di loro, dalla Lombardia alla Sicilia, si sono da poco riunite allo spazio sociale Scup di Roma, per fare rete e darsi una strategia comune. Perché numerosi rischi, per il raggruppamento che si muove sotto la bandiera del mutualismo, sono dietro l’angolo. Il timore più sentito, è quello di scivolare nelle secche dell’assistenzialismo, del volontarismo, del pauperismo, della sussidiarietà. «La nostra pratica non deve diventare il “pannicello caldo” della carità cristiana – chiarisce Cannavò -. E per evitare questa deriva bisogna innanzitutto saperla riconoscere, essere consapevoli che c’è una ideologia del mutualismo che non fa altro che privatizzare i servizi. Poi c’è un altro aspetto, ossia che questa attività deve restare legata ad una prospettiva politica in termini di progetto di società». Non può ridursi, insomma, a gruppi di acquisto solidali che ripuliscono la coscienza di chi può permettersi di fare la spesa spendendo un po’ di più.
«Mi sono permesso di definire la nostra alternativa come “mutualismo politico”, “conflittuale”. Del resto è quello di cui parlava anche Marx, nei suoi saluti alla Prima internazionale: quando fondi una cooperativa devi sempre legarla ad un progetto di rivolgimento della società». Il suggerimento del filosofo di Treviri costituisce un antidoto anche per l’altro grande rischio di queste esperienze, ossia quello di chiudersi – pian piano – ognuna nella propria nicchia. «C’è chi dice “fate attenzione” – prosegue Cannavò – perché così non fate altro che mettervi dentro ad un’“isola felice”, a gestire il vostro progetto, senza tenere in conto che i diritti bisogna conquistarli per tutti ed allargarli per tutti. Ecco, io credo che il mutualismo conflittuale sia una pratica del tutto diversa. Nel momento in cui si occupa una fabbrica, nel momento in cui si realizza un servizio autogestito, immediatamente ne deve venir fatta una battaglia politica, perché quel servizio, quello spazio, quel diritto, venga garantito, venga allargato, venga sancito».
In che modo mettere in rete le realtà mutualistiche, incrociare in modo proficuo le lotte, è – al tempo stesso – il punto debole e la sfida più appassionante di tale prospettiva. L’interrogativo che sprona a compiere uno sforzo creativo ancora tutto da elaborare. «Senza pensiero, cultura, intelligenza politica – si legge nel pamphlet – il mutualismo e la resistenza ripiegano sull’esistente e si accartocciano come fiori spenti». Per questo motivo, «far da sé pensando», sono le parole d’ordine individuate per rispondere in un solo colpo alla crisi dello Stato, alla crisi del welfare e a quella del socialismo reale, e approdare a quella che viene presentata come «democrazia dell’autogoverno».
Qualche esempio di chi ha intrapreso questa strada (niente affatto in discesa)? «Penso al movimento dei Sem terra in Brasile – prosegue l’autore – un’esperienza tra le più organizzate e strutturate. Parliamo di 10 milioni di iscritti, di una realtà che ha permesso l’organizzazione dei senza terra attraverso lo strumento semplice dell’occupare i terreni, in un Paese a grande latifondo, dove gli spazi coltivabili sono sterminati, e ha fatto diventare l’occupazione un elemento di soggettivazione politica. Intorno a questo atto è stato costruito il cosiddetto “mutualismo pensante”, perché i Sem terra sono l’organizzazione che più di tutti ha costruito scuole popolari, ha investito nella formazione…». Ma, oltre ai Sem terra brasiliani e al Soc (Sindacato operaio agricolo, ndr) andaluso, Cannavò cita anche realtà di successo che crescono nel territorio italiano.
«Fino ad un paio di anni fa, di esperimenti di tal genere non se ne parlava minimamente. Oggi invece, alla Rimaflow (ex fabbrica di componentistica per auto, occupata e recuperata a Trezzano sul Naviglio, ndr) lavorano 85 persone, quando pochi anni fa c’erano i capannoni deserti. A SfruttaZero (progetto mutualistico legato alla filiera del pomodoro in Puglia, ndr) collaborano una dozzina di persone, a Sos Rosarno (omologo calabrese, legato alla lotta al caporalato nel settore agrumicolo, ndr) lavorano 10 persone. È molto difficile, certo, ma si vedono molti passi in avanti».
Leonardo Filippi
*Da Left