Nove mesi per fermare il disastro
Ci vollero 9 mesi per fermare la fuoriuscita del petrolio causata dall’esplosione della piattaforma Ixtoc 1, nel Golfo del Messico. Era il 3 giugno del 1979 quando la piattaforma di perforazione Ixtoc 1, posta un’ottantina di chilometri a largo della città messicana di Carme, nella baia di Campeche fu distrutta da un incendio e dalla conseguente esplosione di gas e petrolio. Un incidente considerato «piuttosto raro» dagli esperti ma non certo unico: precedentemente era già accaduto nel ’77 nel mare di Norvegia, nel ’71 in Iran e nel ’69 in California. In ciascuno di questi casi la fuoriuscita di greggio era stata bloccata in una decina di giorni, ma per la Ixtoc 1 la faccenda andò avanti ben più a lungo. Si riuscì a bloccare il greggio solo il 23 marzo del 1980, dopo 295 giorni durante i quali la fuoriuscita fu prima ridotta dalle 4200-4300 tonnellate al giorno a 1400-1500 tonnellate grazie alla perforazione di una serie di pozzi vicino a quello esploso, per ridurne la pressione.
La quantità totale di petrolio allora riversato in mare non fu mai determinata con precisione, dicono al Cedre, il centro francese per la ricerca e sperimentazione sull’inquinamento accidentale delle acque. Le stime più caute parlano di circa 470 mila tonnellate, mentre lo scenario più pessimista ritiene che siano state addirittura 1.500.000. Tra metà e un terzo di questo petrolio bruciò causando un vasto inquinamento atmosferico, il resto si sparse nel Golfo del Messico sotto forma di chiazze gommose galleggianti. L’uso di solventi si dimostrò ampiamente insufficiente, le chiazze arrivarono un pò ovunque sulle coste messicane e anche in Texas. Le zone di riproduzione dei gamberi, le mangrovie, le spiagge e i luoghi di nidificazione degli uccelli marini furono inquinati, con danni enormi. Non fu mai pubblicato un rapporto dettagliato su quella catastrofe ambientale. Una stima approssimativa sui costi totali è di 1,5 miliardi di dollari, di cui meno di un terzo spesi per neutralizzare il pozzo, i restanti, per far fronte ai danni ambientali e sociali.
Causa incidente, occhi puntati su Halliburton
Lavori di cementificazione fatti sulla piattaforma Deepwater Horizon dalla Halliburton potrebbero essere stati all’origine dell’esplosione che ha fatto affondare la piattaforma petrolifera nel golfo del Messico: lo scrive oggi il Wall Street Journal puntando i riflettori sulla società di cui l’ex vicepresidente Dick Cheney è stato amministratore delegato negli anni Novanta. La cementificazione serve a impedire perdite di greggio e gas naturale riempiendo l’intercapedine tra l’esterno del tubo di trivellazione del pozzo e l’interno del buco scavato nel fondo dell’oceano. Nel caso della Deepwater il personale della Halliburton aveva finito di pompare il cemento nel pozzo poco prima dell’esplosione. Le agenzie di vigilanza sull’industria estrattiva hanno da tempo identificato la cementificazione come un processo capace di provocare uno scoppio nel caso in cui petrolio e gas naturale risalgano sul pozzo con potenza esplosiva. Se nel cemento si producono crepe, o se il lavoro di cementificazione non è ben fatto, petrolio e gas possono sfuggire di controllo ed, essendo altamente infiammabili, possono prendere fuoco. Potrebbe esser successo questo sulla Deepwater Horizon. La Halliburton, che ha sede a Houston e fornisce servizi di ogni tipo all’industria petrolifera, è la più grande società al mondo specializzata in cementificazione, un business che nel 2009 le è fruttato 1,7 miliardi di dollari, pari all’11 per cento del fatturato globale. Halliburton è stata al centro delle polemiche durante l’amministrazione Bush per i contratti privilegiati ottenuti in Iraq senza appalto grazie, secondo i critici, ai legami con l’ex vice-presidente Dick Cheney, amministratore delegato del gruppo tra 1995 e 2000 prima di arrivare alla Casa Bianca.