Usa e Cina, cambia il tono
Lo scorso luglio, Barack Obama ne era molto convinto: «La relazione tra gli Stati Uniti e la Cina caratterizzerà il XXI secolo». Censura su internet, vendita di armi a Taiwan e incontro con il Dalai Lama: dopo una breve luna di miele, le relazioni sono diventate tese. Guilhem Fabre non comprende lo stupore occidentale rispetto alle posizioni cinesi. Secondo questo professore dell’università di Havre, specialista dei rapporti tra socio-economia e istituzioni della Cina contemporanea, la Cina non fa che seguire un’agenda stabilita da molto tempo.
La Cina alimenta la propria crescita con le esportazioni verso gli Stati Uniti, gli Usa finanziano il proprio deficit grazie all’acquisito di titoli di Stato da parte della Cina, i due paesi sembravano aver trovato uno statu quo. Cosa dicono, invece, le provocazioni e le tensioni attuali?
La Cina non fa che riaffermarsi a livello internazionale tramite questi dossiers. Nell’ambito della crisi economica, rispetto alle debolezze degli Stati Uniti, i cinesi premono l’acceleratore. Dopo la turbolenza del 2008-09, il cambiamento indica un modo nuovo di reinserirsi a livello internazionale. Ora la Cina parla con gli Usa su un piano di parità e questa è una novità. La crescita cinese è stata alimentata dagli investimenti delle multinazionali americane. C’è una forte interazione tra la Cina e gli Usa ma tutte le cancellerie occidentali si sono illusi che con l’economia di mercato la democrazia si sarebbe insediata in Cina. Questo non è mai stato il progetto dei dirigenti cinesi: siamo di fronte a un regime che segue una propria agenda di lungo termine.
La vicenda della ripresa del dialogo con il Dalai Lama assomiglia a un pretesto
Fin’ora, si trattava di minacciare i francesi, non gli americani. Quando Bush riceveva il Dalai Lama, c’era sempre un decalogo di proteste ma solo formali. Ora, il tono è cambiato. E non si tratta di un pretesto. Per i cinesi si tratta di una questione centrale. Sarebbe semplice trovare un compromesso e rasserenare la situazione. Il problema si pone anche con Taiwan: ci sono pressioni cinesi per impedire la vendita di armi americane a Taiwan ma gli stessi Cinesi tacciono sul fatto che hanno piazzato da circa dieci anni diverse centinaia di missili proprio di fronte a Taiwan. E hanno anche fatto esercitazioni di tiro durante le elezioni presidenziali a Taiwan per intimidirla: due pesi e due misure
Armi, politica estera: la partnership è dunque rimessa in discussione?
Certamente, alcune collaborazioni militari erano state riprese: ormai, però, saranno congelate proprio per sottolineare che la Cina è di pessimo umore. Fa parte di una strategia. Per molto tempo, i cinesi hanno mantenuto il profilo basso, ora si accorgono che possiedono le prime esportazioni mondiali. E vogliono non soltanto giocare il ruolo centrale che hanno già in Asia ma anche a livello internazionale, come si vede in Africa. Il problema che si è posto in Cina è che dal 1989, dalla repressione di Tienamen, i dirigenti hanno congelato le discussioni all’interno del partito comunista. Hanno mantenuto un’apertura economica e allo stesso tempo la repressione politica: ed è questo che fa avanzare il sistema. Gli occidentali hanno giocato la carta della cooperazione economica in questo quadro: e sono ripagati con la stessa moneta. Non ci sono mai state vere pressioni. Si è chiesto ai Cinesi di sottoscrivere convenzioni sui diritti civili e quando sono state sottoposte al parlamento cinese non sono mai state ratificate. Pechino sposta il proprio funzionamento interno a livello della politica estera, alimentandosi di un nazionalismo esasperato. Era prevedibile.
Durante il vertice di Copenaghen, si è avuta l’impressione che i due più grandi inquinatori del pianeta si lanciassero nella cogestione del mondo.
Niente affatto, i Cinesi sono arrivati avendo già annunciato i loro obiettivi. Hanno dichiarato semplicemente: ridurremo del 40% le emissioni in rapporto al Pil. Dato che il Pil cinese cresce del 10% l’anno, automaticamente questo vuol dire che si autorizzano a emettere molto più Co2.
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C’era finora intesa sulla governance economica: i punti di convergenza tra Usa e Cina sono sul punto di evolvere?
Resta un gioco d’equilibrio sul piano strettamente economico. E serve agli uni come agli altri. Le multinazionali americane hanno investito in Cina per ridurre i propri costi e realizzare profitti importanti. Gli esportatori cinesi utilizzano prioritariamente il mercato americano perché è molto più semplice per loro: è il primo mercato unificato del pianeta. Sul mercato americano ci sono grandi distributori che sono interlocutori unici in grado di coprire tutto il territorio. In Europa, le cose sono molto più complicate: ci sono differenti paesi e differenti regole.
Dietro le polemiche attuali, si percepiscono punti di rottura più profondi come il protezionismo americano o la sottovalutazione dello yuan.
I prodotti cinesi sono estremamente competitivi. Molto più competitivi da quando Pechino ha deciso di ancorare la propria moneta al dollaro Usa e questo ha perso il 15% del proprio valore dall’inizio della crisi economica. Gli americani lasciano cadere il dollaro in rapporto all’euro o allo yen per rimborsare il proprio debito. I cinesi fanno invece ciò che potremmo chiamare free riding: utilizzano questa riduzione per esportare non soltanto negli Stati Uniti ma anche per sviluppare le loro esportazioni verso il Giappone o l’Europa a prezzi estremamente competitivi poiché anche la loro moneta è svalutata del 15%. I cinesi praticano una politica di scambio irresponsabile dall’inizio della crisi. Prima, avevano rivalutato in rapporto al dollaro del 20% tra il 2005 e il 2008. Ora, c’è una politica di ancoraggio al dollaro che sta provocando un protezionismo sempre più forte negli Usa.
Al di là della crisi attuale, quali sono le prospettive di lungo termine?
Tutto dipenderà dalle interazioni che esistono tra la Cina e l’estero ma anche da quello che accadrà nella stessa Cina. Negli Stati Uniti ma anche in Europa, i partner commerciali hanno la tendenza a sviluppare una politica di blocco. Stiamo assistendo a un processo di regionalizzazione economica, come minori scambi. Il rapporto tra globalizzazione e regionalizzazione cambierà senza dubbio.