Al palo della morte di Giuliano Santoro. Di Selene Pascarella (da Mondo Giallo*)
A cosa serve la cronaca nera? Spogliata di tutta la paccottiglia voyeurista, del gore nazionalpopolare e del pathos da populismo penale, ha ancora la capacità di raccontare la realtà? O è definitivamente inchiodata alla sua mission più becera e minimalista, scandalizzare e infiammare il pubblico generalista, che rifugge dalla cronaca politica e da ogni forma di notizia che presupponga uno sguardo complesso sul mondo, ed è inseguito dai media lungo la linea di confine, perennemente mobile, dello storytelling tossico?
Disinnescare la macchina narrativa della nera, picconando l’apparato di linguaggi, grammatiche e format che la incapsulano nell’ideale colonna destra dell’immaginario, tra micini coraggiosi e veline vogliose, è uno degli obiettivi centrati di Al palo della morte. Storia di un omicidio in una periferia meticcia di Giuliano Santoro. Pubblicato a dicembre 2015 da Alegre nella collana Quinto Tipo (il timone editoriale è nelle mani di Wu Ming 1, la rotta procede corsara mescolando inchiesta, romanzo e nonfiction attraverso oggetti narrativi non identificati) il libro racconta l’omicidio di un giovane pakistano alla periferia di Roma.
La storia potrebbe rientrare nelle quattro righe di un lancio di agenzia: un minorenne capitolino ammazza a calci e pugni un 28enne pachistano in una strada del quartiere di Torpignattara. Pochi giorni dopo, viene arrestato il padre del ragazzo, con l’accusa di concorso e istigazione all’omicidio. I due testimoni chiave al processo saranno i vicini di casa. Un banale caso di cronaca che è stato subito dimenticato dai media locali e non è mai arrivato all’attenzione dell’audience nazionale. Santoro ne recupera la memoria e il senso, lavorando su fonti dirette e muovendosi nel territorio degli eventi con uno sguardo che rifiuta di eleggere a paradigma una piccola storia ignobile. Offrendo spunti per interpretare la cronaca che ha investito e continuerà a investire le mille periferie che scandiscono il nostro panorama.
Al palo della morte risponde alla maligna retorica sul ragazzo di vita che va in contro a un destino tragico e inevitabile per mano del parvenu infiltrato nella Roma bene, che ha attraversato il caso Varani. Avrebbero dovuto leggerlo i colleghi che si sono messi in marcia verso i “palazzoni” del Collatino, dove è avvenuto l’omicidio di Luca, in via Igino Giordani, al civico due, con il cipiglio di esploratori oltre la frontiera. A caccia di un indefinibile genius loci delittuoso, inciso negli androni in marmo di terza scelta, nelle tendine sintetiche a protezione di finestre tutt’altro che balconate. Forse avremmo avuto meno reportage pittoreschi giocati sulle dichiarazioni dei vicini di casa ed editoriali del genere lotta di classe e sangue all’interno del grande raccordo anulare.
La decostruzione linguistica dei trucchi con cui la fredda cronaca contrabbanda una visione identitaria della realtà e dei fatti delittuosi che dovrebbero rappresentarne la rottura, il punto di partenza dell’intera analisi del libro, ricorda al colto e all’inclita che lanci di agenzia come quelli sull’omicidio di un migrante nel Cie di Rosarno da parte di un carabiniere non sono asettici. Costruiscono attraverso le parole, con un abile shift semantico, realtà alternative. Un pezzo di ferro diventa un coltello, ovvero il corpo di un reato di aggressione in grado di giustificare la difesa attraverso un’arma da fuoco che, una volta messa in campo, con tanto di pezza d’appoggio, può implicare un colpo quasi accidentale, partito dall’incolpevole uomo in divisa, cioè vittima e non aggressore.
Come a Torpignattara, dove a essere ucciso è stato «un pakistano» ma l’aggressore era solo «un ragazzo». «I nomi – scrive Santoro – tendono a definire un insieme, a generalizzare. Marcano una differenza tra noi e loro. Un aggettivo aggiunge un dettaglio. Un sostantivo traccia un confine. E la nostra storia è fatta di confini invisibili e arbitrari».
Questo libro-inchiesta (non è un saggio, ma ne rispetta il rigore nel trattare le fonti, non è un romanzo ma costruisce con grande efficacia narrativa i luoghi, i personaggi, i sommovimenti di massa che entrano nell’inquadratura di chi scrive) ridicolizza la geolocalizzazione paranoide dell’invasione migrante, che all’indomani degli attentati di Bruxelles ha insaccato Torpignattara – il centro da cui si dipana l’analisi-multiverso di Santoro, muovendo da via Ludovico Pavoni, dove è avvenuto, il 18 settembre del 2014, l’omicidio di Shahzad – nel ruolo di «Molenbeek d’Italia».
Un quartiere fantasma, che per il pubblico potrebbe essere ovunque, trasformato nella cartolina del terrore islamofobo. Una volta al bar, a Viterbo, un vecchietto mi ha detto sventolando una copia de Il tempo: «Questa Torpignattara è uno schifo, dovrebbero murarla e daje fòco a tutti». Gli ho fatto notare che eravamo seduti nella parte bassa del rione Murialdo, fino a dieci anni fa il Bronx della capitale della Tuscia e che Torpigna non era altro che un quartiere popolare simile al nostro, con tutte le contraddizioni del caso.
«E no, mi ha risposto piccato, qua semo tutti bravi fiji, quelli che dici tu stanno dè là». Quel dè là, mimato con il braccio puntato a nord-est, indicava un confine invisibile, tracciato appena ottocento metri a valle del bancone col caffè fumante, subito dopo le palazzine popolari. Gran parte dei figli non proprio bravi del quartiere, ex tossicodipendenti, piccoli spacciatori, ladri d’appartamento, proviene da quel conglomerato di cemento. Intorno al quale sono cresciute villette signorili e caseggiati da classe media i cui abitanti rifiutano ogni forma di contaminazione con la popolazione “indigena” precedente. Ma vivono porta a porta con famiglie di origine romena, cinese, indiana e africana e ancora non hanno assorbito la migrazione interna dei meridionali, che nel quartiere vengono indicati col nome della regione di provenienza.
C’è stato, nel 2015, a Viterbo, un caso di omicidio che ricorda quello di Shahzad. Un venticinquenne ha ucciso con un pugno un “ubriaco” che, a suo dire, stava molestando la sua ragazza. La stampa locale si è gettata a capofitto sul caso, complice la giovane età e l’avvenenza dell’accusato, divenuto subito oggetto di simpatia. Un povero fijo, che aveva avuto solo la sfortuna di colpire un po’ troppo forte un barbone molesto. Al bar lo difendono tutti, compresi quelli dè là, che avrebbero molti motivi per identificarsi con la vittima. Poi succede un fatto strano. Il Corriere di Viterbo, nel consueto pezzone sull’argomento, definisce il ragazzo «il figlio di una delle famiglie migliori di Viterbo». In effetti, vive nella parte giusta del Murialdo e sua madre è la compagna di una persona molto influente. Nessuno, però, ha dimenticato che quel ragazzo, in realtà, è il figlio di un ex affiliato di camorra. All’improvviso la cittadinanza, che si sente espropriata da questa residenza fittizia, toglie il suo appoggio al giovane. Non basta vivere dè qua, per essere un bravo fijo viterbese. I testimoni, che lo hanno coperto, iniziano a parlare. Si scopre che l’ubriaco molesto era intervenuto in difesa della ragazza, che subiva minacce violente dal fidanzato.
Che c’entra Il Murialdo di Viterbo con la Torpigna capitolina, di cui sembra invece l’antitesi, nella sua fiera identità a prova di meticciato? C’entra nella misura in cui incarna, inconsapevolmente o meno, lo spostamento del Palo della morte che dà il titolo al libro. Prelevato dal film Un sacco bello, di Carlo Verdone, nella narrazione cinematografica originaria indica un luogo di periferia che più estrema non si può. Una frontiera impalpabile che il protagonista, preso nella fallimentare evasione di un viaggio oltre la cortina di ferro, a Cracovia, non riesce a valicare. Nel viaggio di Santoro si sdoppia, si moltiplica, segnalando le mille cesure che nel tessuto cittadino indicano il riposizionamento del confine tra centro e periferie imposto dalla gentrificazione e da una spiccata attitudine immobiliaristico-cementificatoria che ha tracciato il destino, urbanistico e politico, di Roma.
Se il Pigneto, fantasmagorica Tribeca all’amatriciana, tutta localini e movida, è centro, Torpigna, solo pochi isolati dopo, è la terra desolata del degrado e dell’immigrazione selvaggia, da combattere un corner shop dopo l’altro in nome della legalità fiscale (Ma questi non fanno mai uno scontrino!) e della purezza merceologica (Ma che so’ queste bottegacce luride dove se vende de tutto al posto dei nostri bei negozi). I suoi abitanti si sentono allo stesso tempo marginali e portatori di una identità che ha sostituito le frontiere patrie con i bastioni delle municipalità, ma nella maggior parte del tempo rivendicano solo lo spazio tra camera da letto e tinello, dentro i confini del bunker domiciliare. Incitano ad “aiutare” gli stranieri a casa loro, si vogliono padroni nel loro paese, ma tra un vano e l’altro accumulano perdita di senso, disperazione e immondizia, si fanno «barboni a casa propria». Nessuno spazio è un luogo definito, perciò quando Shahzad cammina per strada, prigioniero di una Roma afosa, mormorando una preghiera verso un dio universale, e cade vittima della violenza di Sergio e di suo padre, nella filigrana della realtà tremolano vicende del passato prossimo e remoto. Le baracche dei brutti, sporchi e cattivi, la paciosità feroce della gente de Roma che se vòle bene, la violenza nera degli anni settanta, le lotte per la casa, i bangla tour dei neofascisti, la costruzione della Torpigna meticcia e la nascita dei comitati di quartiere come nemesi dei movimenti dal basso, i palazzinari e l’occupazione della Pantanella, la banda della Magliana e la terra di mezzo di Carminati.
Come si fa a raccontare tutto questo all’interno del frame claustrofobico dell’immigrato che ha trovato la morte per mano del borgataro esasperato dal degrado urbano? La risposta di Santoro è chiara: non si può. Aggiungere i particolari sanguinolenti e i dettagli da favola nera riduce ulteriormente lo sguardo, il reportage dello scrittore autorevole nei luoghi del male (spuntano come i funghi nei casi di grido) pompa retorica e sottrae elementi di comprensione.
In un non romanzo che dovrebbe usare il ponte collaudato e paludato della prima persona, il narratore, che vive a Torpignattara e sarebbe anche autorizzato a eleggersi a incarnazione del “noi” o di un “noi”, non travalica mai l’oggetto, non resta ossessivamente in primo piano, non si rifugia nella scorciatoia della suggestione metafisica (vi racconto il male perché l’ho toccato con mano) o dell’empatia personale eletta brand etico di gruppo (je suis Shahzad).
Non è un osservatore privilegiato, un bene informato, uno che parla dall’interno, la sa più lunga di tutti e quindi ci insegna la morale adatta a metabolizzare la morte di Shahzad, a farla rientrare nei consueti schemi del nostro asfittico dibattito pubblico. Fa parlare gli attori collettivi che hanno avuto un ruolo nella storia anche a chilometri o anni di distanza. Un lavoro paziente e defilato che rifiuta, persino nella forma (non c’è titolazione interna, i paragrafi si dipanano in assenza di gerarchia cronologica o tematica) di concedere qualcosa alla tradizione lunga e nutrita degli scrittori e dei giornalisti che testano la propria autorevolezza nel filone di nera e sdoganano a parabola i fatti che raccontano solo in virtù del loro peso specifico.
Al palo della morte non è un libro che affronta un caso di cronaca nera. Anche per questo torna utile ogni volta che si scrive di un omicidio. Racconta periferie anni-luce da Torpignattara. Ragion per cui ho voluto inaugurare lo spazio dedicato alle recensioni con la Storia di un omicidio in una periferia meticcia.
Recensione: sostantivo femminile (dal latino rĕcensēre che significa esaminare, passare in rassegna, riflettere), presentazione critica in forma di articolo di un’opera letteraria o scientifica pubblicata di recente. Al palo della morte non è recente, non nell’accezione parossistica del nostro mercato editoriale. Eppure offre gli strumenti per leggere, attraverso un caso di cronaca nera, le contraddizioni in cui inciamperemo domani mattina e la penisola periferica in cui viviamo.
*Fonte: http://www.mondogiallo.it/al-palo-della-morte-di-giuliano-santoro/