Angela Davis, Blues e femminismo nero – Andrea Bernardini da “Corriere Romagna”
Questo bel libro di Angela Davis, attivista del movimento afroamericano e paladina del femminismo e dell’intersezionalità, ha i contorni di un affresco, capace di fare i conti con quella dimensione “sovversiva” rappresentata, all’interno di un genere come il blues, da cantanti quali Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday. “Blues e femminismo nero” (Alegre), infatti, indaga il modo in cui il blues femminile infranse i rigidi tabù sulle rappresentazioni della sessualità che caratterizzavano i prodotti culturali dell’epoca, contestando gli assunti patriarcali sul ruolo delle donne. Attraverso le loro performance, queste cantanti (qui parleremo di Bessie Smith e di Billie Holiday…) arrivarono a preannunciare una sensibilità femminista, mostrando come il blues potesse sfidare l’ideologia dominante e promuovere forme di coscienza della working class nera.
Bessie Smith, che registrò i suoi primi dischi nel 1923 e continuò a cantare fino al 1937, è stata un punto di riferimento per intere generazioni di cantanti e grazie a lei il blues è diventato un’arte. I brani da lei incisi mettono in luce tutta la sua forza espressiva. La vocalist di Chattanooga era in grado di ricreare secondo un approccio originale la frase musicale. Basti pensare alla maniera poco prevedibile in cui segmentava le frasi per prendere il respiro, al modo in cui poggiava gli accenti su determinate parole, trascinandone altre, ad alcuni eccezionali portamenti. Per non dire dell’assoluta padronanza dell’intonazione e della sua abilità nel dare al discorso scorrevolezza e continuità. <<Spregiudicata e indipendente, la Smith cantò con “scandalosa” naturalezza frasi come “datemi un boccale e una bottiglia di birra”>> (Giuseppe Videtti). Le sue interpretazioni, altrettante espressioni di autenticità emotiva, erano talmente drammatiche che si stenta a trovare lo stesso pathos in molte cantanti di oggi. Sulla sua lapide Janis Joplin, appassionata cultrice della Smith, fece scrivere: “La cantante di blues più grande del mondo non smetterà mai di cantare”.
Per passare ad un’altra protagonista di questo libro, Billie Holyday, la sua voce si può considerare una delle massime espressioni del canto jazz (un jazz profondamente radicato nella tradizione blues…). Un modo di cantare, quello della vocalist di Baltimora, dalla qualità ellittica, che evidenziava una propensione a sottrarre. È facile notare, rispetto al materiale sottoposto alla sua attenzione, come l’artista americana spesso tendesse a cambiare le note per muoversi in un ambito più ristretto; e come riuscisse sempre a trovare la timbrica giusta per ogni zona melodica. “Nelle canzoni da lei interpretate – ha scritto Demètre Ioakimidis – si trovano i procedimenti per mezzo dei quali la Holiday (la cui voce, non dotata di una grande estensione, era caratterizzata da una vena dolente, a tratti drammatica, n.d.r.) trasformava una melodia: l’accentazione di certe note, che faceva precedere da brevi silenzi che attiravano su di esse l’attenzione; l’affrancamento, in rapporto al tempo, della frase, cominciata generalmente con un leggero ritardo su quello: un effetto da cui ella ricavava un considerevole swing; le improvvise opposizioni dei registri; o la combinazione di questi due ultimi effetti. Si resta colpiti dal modo in cui ‘pensava’ i suoi vocali: lo faceva molto più alla maniera di uno strumentista che a quella di una cantante”. La Holiday ha incarnato l’alchimia tra innocenza e vita vissuta che qualsiasi ascoltatore può condividere, tanto più in anni difficili e apparentemente viziati dall’aridità come questi, rispetto ai quali la sua vocalità è in grado di far capire e “sentire” tanto.
Come avrebbe detto Audre Lorde – scrive Raffaella Baritono nella prefazione a “Blues e femminismo nero” – occorreva trasformare il “silenzio in linguaggio e azione. Rompere il silenzio è gettare un ponte fra alcune di quelle differenze fra di noi, perché non è la differenza a immobilizzarci, ma il silenzio. E ci sono così tanti silenzi da rompere”. Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith, Billie Holiday, ci avverte Angela Davis, quel silenzio lo avevano rotto con le loro canzoni e il loro vissuto, sostituito da voci di denuncia, di speranza e anche di rabbia, spesso dolente ma non per questo meno “produttiva” perché permetteva di creare uno spazio di presa di coscienza e di resistenza, denunciando le condizioni di oppressione, la povertà, le disuguaglianze, la violenza patriarcale, l’eterosessismo.