Chav. Solidarietà coatta – Romina Arena da “La biblioteca di Montag”
Nel Regno Unito, appartenere al sottoproletariato e al sottoproletariato di etnia rom irlandese, significa crescere e vivere con lo stigma di Chav, letteralmente: coatto. Non nell’accezione tramandataci da Er Piotta, ma in quella più cruda di criminale, poco di buono, qualcuno che non combinerà mai niente nella vita se non guai e casini. Reietti, insomma, scarti. Un termine offensivo, stigmatizzante e stereotipante che schiaccia una realtà poliedrica e molto più complessa e che D. Hunter ha raccontato in Chav. Solidarietà coatta (Alegre, traduzione di Alberto Prunetti), a metà tra il saggio politico e l’autobiografia. […] i chav sono persone che vivono nel Regno Unito, nate dopo la svolta neoliberista degli anni Settanta, che proprio a causa di quella svolta sono state traumatizzate, marginalizzate e demonizzate dalle politiche dei governi britannici.[…] E’ una cosa di classe: ti chiamano coatto e dicono che non appartieni alla working class, che stai al di sotto della classe lavoratrice, e non puoi uscirne. Appartieni all’underclass, al sottoproletariato, per sempre.
I Chav appartengono al sottoproletariato o alla working class, vivono ai margini dell’economia se non addirittura totalmente fuori da essa e non hanno accesso ai principali servizi al cittadino, ai diritti inalienabili di ogni essere umano. In quanto classi irregolari che sfuggono facilmente alla rete di controllo centrale, non monetizzabili, non bancabili potenzialmente pericolose, subiscono gli abusi e le storture di un sistema meritocratico che li lascia cadere fuori da ogni possibilità e anzi sfrutta i luoghi e le condizioni dalle quali provengono come capri espiatori per inasprire le politiche che predicano sicurezza, legalità e decoro.
In questo contesto si cresce duri, spesso rassegnati, con una coscienza di classe radicata e una visione radicale altrettanto riottosa e incandescente. L’appartenenza plasma il modo di vedere e di agire, modula il taglio attraverso il quale si inquadrano i meccanismi che vogliono ricchi alcuni e poveri altri. La classe a cui appartengo determina la maniera in cui io vedo il mondo e come interagisco con le cose. Come interagisco e come sono soggetto ai sistemi e alle istituzioni che plasmano la società di questo paese […] Ritengo che la classe sia una cosa viscerale. Se hai vissuto da sottoproletario o nella working class più povera, qualcosa risuona attorno al tuo corpo anche se sei riuscito a uscirne per vivere in spazi più sicuri.
L’odio nei confronti del capitalismo è sistemico anche se a volte non necessariamente coscientizzato, perché la natura capitalista dello sfruttamento spinge la working class povera a vivere le conseguenze dello squilibrio sociale e il sottoproletariato a guadagnarsi da vivere come può, coi furti, le rapine, il traffico di stupefacenti, le lotte clandestine o la prostituzione. Un sistema che sganghera famiglie già disastrate e minate dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza, dalla fame e da condizioni abitative drammatiche, dall’impossibilità di accedere all’istruzione e dalla delinquenza che porta come risultati la morte violenta o la detenzione. Nel condividere una simile condizione, le comunità tendono fisiologicamente ad auto organizzarsi e sviluppare una solidarietà di classe derivante dalla consapevolezza di compartire la medesima povertà, gli stessi problemi e le stesse lotte. Organizzazione collettiva e resistenza sono pratiche diffuse tra le persone che vivono ai margini. […] La cultura ufficiale demonizza e patologizza queste persone, le rappresenta come individui infranti che devono essere ricostruiti secondo l’immagine del bravo cittadino della società capitalista. Non sono d’accordo. Ritengo che queste persone, e le situazioni che creano sono la pietra di fondazione per costruire una società migliore.
Collettività e resistenza sono le armi di una comunità che risponde alle fratture imposte dal capitalismo con una rete di difesa e mutuo soccorso che scardina la logica individualista imperante. Noi, persone povere e working class siamo costretti dalle strutture e dalle istituzioni della società a vivere interi periodi della nostra esistenza in condizioni in cui la sopravvivenza è l’unica cosa che conta, momenti che possono durare settimane, mesi, anni, decenni. In questi periodi la nostra resistenza, la nostra forza come individui e come comunità, può venire alla ribalta. Una forza che ci permette di impegnarci gli uni con gli altri, di fare affidamento gli uni sugli altri, che permette alle nostre vite di intrecciarsi tra loro, consapevoli che abbiamo più possibilità di sopravvivenza se le nostre vite sono profondamente connesse. Ed è in queste circostanze che si sviluppano il nostro impegno verso gli altri e la nostra vita collettiva, e che si accrescono la nostra capacità di difesa e la possibilità di scegliere come pensare e agire. Perché è solo quando c’è collettività, e la si rafforza, che possiamo fare qualcosa di più di sopravvivere.
Ma è anche una collettività diminuita, alle prese con una condizione ordinaria insostenibile, continuamente provocata dentro la propria povertà a dimostrare di poter stare con due piedi in una scarpa, pur sapendo che non esistono scarpe che possano contenere piedi che portano in giro traumi profondi, disturbi psichici, tossicodipendenza e alcolismo: il trittico dolente che il disagio sociale porta in dote. La salute mentale è razzializzata e intrecciata all’oppressione di classe. Chi ha difficoltà mentale dovrebbe essere sostenuto, ma spesso si dà priorità alla depressione e all’ansia delle persone bianche di classe media. Questo in parte perché è considerato sgradevole e molesto il modo in cui si manifestano depressione e ansia nelle persone povere e della classe lavoratrice, e quindi si tende a minimizzarle, a descriverle come un fallimento individuale. in parte perché le persone bianche di ceto medio, qualsiasi sia la loro condizione mentale, sono inclini a collocare la loro narrazione al centro della discussione sulla salute, a scapito di tutti gli altri.
L’appartenenza alla classe sociale, dunque, non è solo una questione di reddito, ma una questione di corpo e del valore che ad esso viene assegnato. Il corpo di una persona bianca della classe media vale più del corpo di una persona nera del sottoproletariato. E’ lo standard imposto dal capitalismo che fissa un prezzo per ogni cosa, vite comprese. E nello stabilire cosa abbia più valore di un’altra, stabilisce anche il perimetro della violenza e della discriminazione, la gerarchia umana di chi sta sopra e chi sta sotto; definisce l’alterizzazione per la quale la classe dominante, per affermare se stessa, ha bisogno di esercitare una violenza – che sia verbale o fisica, ma anche semplicemente indifferenza – sulle classi sottostanti sprovviste del linguaggio metanarrativo dell’autorevolezza e sprovviste anche di quelli che invece sono gli elementi caratterizzanti la classe media: essere consumatrice e detenere le chiavi del consenso a cui ogni potere si piega (a questo proposito, leggi l’approfondimento su La buona educazione degli oppressi, di Wolf Bukowski). D’altro canto, tuttavia, un sistema che costringe ai margini e resetta ogni via d’uscita, che obbliga i poveri a cercare altre vie per sopravvivere, curarsi, cibarsi, apre anzitempo (qualora ci fosse un tempo lecito per questo) le porte del carcere.
Lì dentro la storia non cambia. Una biografia fatta di violenza, dentro un sistema carcerario punitivo e fortemente gerarchizzato, non può fare altro che spingere sulla sua recrudescenza. Per non soccombere bisogna farsi valere; per mangiare e fumare bisogna vendere ciò che si ha e se non si ha niente, si vende il corpo e se si vuole colpire, è sempre quel corpo che si cerca e che si massacra e che si violenta.
D. Hunter è cresciuto in questo ambiente di degrado e schiacciamento, dentro un contesto familiare estremo per il quale ogni azione che permettesse di fare soldi era lecita e incoraggiata, inclusa la prostituzione dei bambini. O il loro stupro. La vita di cui parla non è quella di un adulto, ma di un bambino e poi di un ragazzino pieno di traumi, di rabbia, di frustrazione. Costretto a prostituirsi (la prima volta che ha fatto sesso per denaro aveva 10 anni. Molte altre volte erano suo nonno o sua madre a concederlo agli uomini che lo stupravano), a fare a cazzotti, la solidarietà che ha trovato è stata quella dei suoi pari, persone ai margini senza fissa dimora, detenuti silenziosi che lo hanno accudito dopo un pestaggio nei bagni delle prigioni. Esistenze che hanno condiviso con lui il niente che avevano, gli stracci e i magazzini abbandonati usati come ricovero per la notte, i libri e le sigarette. Spesso l’alcol e anche la droga. A molti di loro ha sputato in faccia, poco avvezzo ad essere aiutato, poco familiare alla confidenza e alla fiducia. Come una bestia ferita.
Finito più volte in galera, ha conosciuto la letteratura e i saggi politici che in qualche modo lo hanno salvato. Lo hanno portato fuori dal circuito vizioso dell’alcol, della prostituzione, della galera, della strada in cui era stato precipitato. Non specifica come, certo c’entra una presa di coscienza, una militanza e un attivismo radicali e intersezionali. C’entra la cultura e c’entra l’istruzione. Questo solo si evince e, forse, questo solo basta a comprendere quali siano le radici del suo estremismo, del valore che dà al senso della collettività e dell’organizzazione sociale collettiva; dei privilegi che toccano ad alcuni e della fame che tocca a molti (Se credi che l’unico modo per salvare il pianeta e l’umanità sia la distruzione totale di un sistema capitalista che si radica nel patriarcato e nel suprematismo bianco, o anche se vuoi soltanto vivere in una società più giusta ed equa, dove a ognuno va secondo i suoi bisogni, allora devi capire quanti benefici ottieni dalla società e come redistribuirli agli altri in modo da poter lottare con più forza); della trasversalità e intersezionalità delle lotte. L’idea che ogni storia “è così com’è” non funziona. Non siamo mai cose singole, siamo sempre connessi al resto del mondo. Quando condividiamo un pasto, quando scambiamo qualche parlo a davanti a una birra, quando ci riposiamo…tutte queste cose sono collegate alle nostre storie individuali e alle storie che condividiamo con gli altri. E il conflitto si innesca quando il modo in cui facciamo le cose di tutti i giorni non è riconoscibile da coloro che ne sono coinvolti”. In questo rientrano anche le critiche mosse ai movimenti militanti e agli attivisti, quasi dei radical chic che però reiterano i comportamenti delle realtà che si impegnano a combattere. “A causa della problematica composizione etnica di alcuni movimenti di cui ho fatto parte, non ho mai visto da vicino a quali tipi di negoziazione sono costrette le persone non bianche di estrazione sociale povera o working class, perché la loro esclusione da questi gruppi è troppo forte.
La vita della sua gente, della classe sociale alla quale sente ancora di appartenere – perché non è necessariamente una condizione economica a designare la posizione di un essere umano, ma la storia che che ha accumulato fino al momento in cui interviene un cambiamento – Hunter la racconta attraverso le sue vicende personali, ma degli abusi e delle violenze non ne fa una questione privata: ne fa piuttosto una questione di classe, frutto del neoliberismo e della sperequazione sociale, delle inesistenti politiche di welfare e della divaricazione netta e, per alcune classi sociali irriducibile, tra il centro e la periferia, laddove periferia non è una collocazione puramente geografica, ma una vera e propria condizione umana.