Come ho ucciso Margaret Thatcher – Liana Isipato su REM
Liana Isipato – Rivista REM – 21 aprile 2024
“Ci vogliono una trentina d’anni, credo, per riuscire a distruggere qualcosa completamente. Una comunità, una società, come vuoi chiamarle. Le cose ci mettono tanto per morire.
È quello che hanno pianificato, se davvero avevano un piano. Dopo il primo shock, tenere la pressione costante. Svendere tutto quello che si può vendere, fino all’ultimo pezzetto. Rimanere in uno stato di crisi permanente. Mettere il mondo alla rovescia. Rubare a quelli che hai reso poveri, per dare ai ricchi. E avanti così, incessantemente. Una rivoluzione permanente, in fondo.”
In questo capoverso di pagina 103 sta un po’ il succo del libro.
C’è una comunità operaia a Dudley, nella contea delle West Midlands in Inghilterra, in cui la vita si svolge normalmente, tra giochi di bambini, partite al pub, lavoro in fabbrica, sfide sul campo da calcio. Le famiglie aspirano a migliorare la propria condizione, fanno il mutuo per cambiare casa, a prezzo di sacrifici quotidiani.
Questa ‘normalità’ viene crepata quando sale al potere Margaret Thatcher. Solamente crepata, all’inizio, quando lei vaga da una crisi di governo all’altra, senza avere un piano preciso. Ma col tempo, quando si rende conto che la classe operaia è più debole e divisa di quanto avesse immaginato, procede con un preciso progetto: vengono chiuse le officine più grandi, poi fabbriche, birrifici…cresce la disoccupazione e la gente si ritrova a vivere di sussidi. Dietro lo slogan d’ordine neoliberista, ‘più efficienza’, si nasconde il disegno di rendere i tempi del lavoro più opprimenti e di ridurre il numero degli operai. Così, Dudley diventa “un posto ai margini di un impero in frantumi”.
Queste cose ce le racconta Sean, il protagonista del libro, in un doppio registro: il Sean bambino (riconosciamo il suo flusso di memoria, emotivo e naïf, dal carattere di stampa in corsivo) e il Sean adulto, più riflessivo e razionale, amaramente distaccato. È chiaro, sin dall’incipit, come la figura più consapevole del disegno thatcheriano sia il nonno, vecchio laburista che non ha dubbi sul potere di sfacelo sociale che la politica antioperaia della lady di ferro avrà non solo sulla comunità, ma sulla sua stessa famiglia. Infatti, anche lo zio Eric e lo stesso padre di Sean tradiscono, per la prima volta, il loro storico partito, abbagliati da una propaganda che promette arricchimento e nuove speranze. Forse illusi di poter cambiare vita, o forse solo per un moto di ribellione.
Ma il nonno “vedeva la tempesta all’orizzonte meglio di chiunque altro”. In casa, affacciato alla finestra, canta l’inno del partito laburista The Red Flag, Bandiera rossa, chiudendosi a chiave in bagno per impedire alla moglie di farlo smettere. Èlui la guida di Sean, e gli dice: “Noi siamo lavoratori. Dobbiamo insorgere e ribellarci!”. Sean è un bambino molto intelligente e critico, appassionato di lettura, che preferisce alla noia scolastica le scorribande in biblioteca, dove si innamora di George Orwell e legge libri sulla classe operaia e sui minatori. Quei minatori in sciopero da mesi che, in quella passata alla storia come “la battaglia di Orgreave”, vennero picchiati selvaggiamente dalla polizia, scatenata anche a devastare case e villaggi.
A Dudley le fabbriche chiudono e i licenziamenti fioccano. Il padre di Sean, disoccupato, inizia un’attività illegale per ingrossare il misero sussidio che non gli consente di pagare il mutuo. E anche il nonno, a un passo dalla pensione, perde il lavoro.
Uccidere la Thatcher diventa così l’idea fissa di Sean, specie dopo aver studiato, a scuola, l’età vittoriana e aver letto (ma per conto suo, in biblioteca) di Edward Oxford, l’uomo che cercò di uccidere la Regina Vittoria nel 1840.
Ci sono intanto le nuove elezioni, e Sean ora ha tredici anni. “Queste elezioni possono essere una delusione per noi, Sean. Lo sai, vero? Probabilmente i conservatori vinceranno. E Margaret Thatcher sarà ancora il Primo ministro. Continueremo a fare del nostro meglio. Non voglio che tu ti preoccupi troppo”. Così gli dice il nonno.
Lei vince nuovamente le elezioni, e Sean pensa che la gente, almeno una parte della gente, l’ami. Quella parte che voleva le fabbriche chiuse e i ricchi sempre più ricchi; quella parte che amava le guerre; quella parte che non si curava dei più deboli.
“Votare dovrebbe essere una cosa giusta. Quella sera, quando mi fu permesso di stare in piedi fino a tardi per vedere con mia madre i risultati delle elezioni, decisi che votare non era affatto giusto. Mio padre era rimasto a letto ma aveva votato e stavolta non c’erano dubbi su chi avesse votato. Ma per sbarazzarci di lei bisognava fare altro.”
Sarà una tragedia familiare a dare il coraggio a Sean di prendere la pistola del nonno e recarsi in treno a Brighton. La Thatcher è lì per un convegno. Scoppia una bomba nell’hotel dove alloggia. Lei ne esce viva… Sean decide, a quel punto, di non uccidere nessuno. Pensa che non sarebbe cambiato niente e che niente gli sarebbe stato restituito. “Hanno vinto e io non posso farci nulla. Non c’è modo di riportare nulla indietro. Lei rimarrà lì per sempre.”
Ad anni di distanza, ormai maturo, Sean conduce un pub, in un mondo che non è più quello, ma ne conserva solo tracce di memoria. E pensa: “Non posso dire che non ci siano giorni in cui vorrei aver premuto il grilletto.”
Il libro è organizzato in brevi capitoli, ciascuno dei quali porta in esergo passi dei discorsi della Thatcher, che si riflettono poi nel racconto di una realtà completamente diversa: la retorica della politica, e i fatti concreti.
La scrittura, viva e ricca di dialoghi stringati, ci immerge nel mondo familiare e nei personaggi ai quali non ho neppure accennato: la madre, radicale e forte nelle convinzioni, ma fragile nelle difficoltà, che la portano a diventare alcolista; lo zio Johnny, un operaio dotato artisticamente nel disegno, molto vicino affettivamente a Sean.
La storia è immaginaria, ma la finzione è talmente intrecciata con l’atmosfera e i problemi sociali di quegli anni, da sembrare, spesso, documentaristica.