Cronaca e pulp fiction, confessioni di una cronista. Enzo Ferrari da Taranto BuonaSera
Una coraggiosa discesa all’inferno. L’inferno di un sottobosco pseudogiornalistico fondato sullo sfruttamento del «sottoproletariato culturale» e su centrali clandestine specializzate nella produzione di novel fiction genere trash. Cronaca nera, nerissima. Sesso e sangue, pruriti elevati all’ennesima potenza.
Tabloid inferno. Confessioni di una cronista di nera è un viaggio scioccante. Una immersione nei bassifondi più oscuri dell’editoria, quella più morbosa e tossica. Sì, tossica, perché è la «narrazione tossica» la scabrosa pietra angolare su cui poggia il format di riviste che durano lo spazio di qualche mese. Una raffica di numeri sparati in edicola e venduti, finché dura, con ampio sfoggio di tette in copertina.
Selene Pascarella, giornalista tarantina di stanza a Roma, sputa fuori tutto il tossico che ha respirato in anni trascorsi come freelance al servizio di «tabloid di serie zeta». Pochi soldi, quando si riescono a vedere, e un solo obbligo: sbizzarrire la fantasia per trasformare un crimine in una eccitante fiction vietata ai minori che tenga morbosamente incollati i lettori alle pagine del giornale (e all’appuntamento in edicola). L’informazione finisce sotto zero.
Il libro (edito da Alegre nella collana diretta da Wu Ming 1) è stato presentato dall’autrice al Nautilus insieme all’avvocato Maria Casiello, presidente dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana.
Una presenza non casuale, per aiutare a comprendere il confine tra diritto di cronaca e libertà di finzione e per capire fino a che punto la narrazione ha finito per intossicare anche le toghe: quelle dei magistrati e quelle degli stessi avvocati.
L’horror tour di Selene Pascarella passa per i casi più morbosi che la cronaca abbia trattato negli ultimi anni: dall’assolata Avetrana del profondo Sud all’algida Garlasco del profondo Nord. Lo stivale attraversato in lungo e in largo: cambiano le location ma il format resta lo stesso, ad uso e consumo di un pubblico sempre più sprofondato nei paradigmi narrativi della pulp fiction.
Questo libro, con il suo ammirevole coraggio, impone una severa riflessione su quel che è diventato oggi il giornalismo applicato alla cronaca nera: un fiume che tracima in nome dell’audience facendo saltare la diga dei codici e della dignità. Una tendenza narrativa alla quale non sfuggono neppure firme celebratissime, come quella di Roberto Saviano, scottato anche lui nell’“inferno” raccontato da Selene Pascarella.
C’è un sentimento di vergogna che trasuda costantemente nelle pagine di questo lavoro. La vergogna di aver «militato» in un sistema che scende ben al di sotto del «grado zero dell’informazione».
Vergogna vissuta nella frustrazione dello «scollamento tra le aspettative» di una giornalista preparata, che ha studiato sul serio, e la «innegabile mostruosità» della «maschera professionale» che si è costretti a indossare per ragioni di sopravvivenza.
Il libro, dopo la discesa negli inferi, esprime però anche la risalita, è la resa dei conti con la propria coscienza che libera dal senso di colpa e apre la strada alla consapevole esigenza di un giornalismo che faccia più informazione e meno sensazione.