Dai Tombini di Torino. Enrico Manera (da Doppiozero)
Un nuovo segnale è stato recentemente emesso dalla galassia Senzanome, raccolto e ritrasmesso dalle edizioni Alegre di Roma che così inaugura la collana Quinto tipo, diretta da Wu Ming 1 e dedicata agli «oggetti narrativi non identificati». Si tratta di libri che erodendo le cornici retoriche codificate e ibridando le tipologie testuali svolgono attività di guerrilla comunicativa e invitano a rileggere obliquamente il nostro mondo: lo stesso che abuso di comunicazione di massa, ronzio di fondo da socialnetwork e inquinamento narrativo diffuso rendono difficile da vivere, decodificare, amare.
Non ci potrebbe essere esordio più felice. Diario di zona raccoglie scritture inizialmente destinate da Luigi Chiarella al suo blog, da cui il nome Yamunin con cui lo si può anche incontrare su Twitter, ecosistema che abita con sagacia. Si tranquillizzi il lettore-critico che diffida di scritti che, nati in rete, trovino ospitalità sulla carta; il libro è quanto di più di più lontano ci sia dall’escamotage editoriale astuto. È la cartografia di una crisi personale innanzitutto, di quelle che capitano ai tanti che, mutati dettagli e con pochi passaggi, potremmo essere noi. La storia è quella di uno nato in Calabria e trasferitosi a Torino che lavora come attore e drammaturgo e si ritrova senza lavoro: un costitutivamente-precario messo all’angolo dalle difficoltà economiche che nel settore cultura&arte rendono improbabile vivere di quello, a chi non lo intenda come passatempo per ereditieri.
Yamunin è persona solida e di diversi lavori – postino, operaio, magazziniere, libraio – come i tanti trentaquarantenni che nonostante tutto hanno creduto (se non nella mobilità sociale quanto meno) nell’interclassismo che fa aspirare a un lavoro diverso da quello dei genitori. Per reagire alla disoccupazione è diventato operaio letturista: uno degli “omini” con tuta e scarpe anti-infortunistica che fanno le letture dei contatori dell’acqua e in giro per la città tirano su dischi di ghisa con palanchini e cacciaviti, entrano nei locali delle cantine, fotografano i contatori e raccolgono dati per le società erogatrici del servizio.
Con libri di poesia o storia nella zaino, ha scelto come mezzo di trasporto la bicicletta, nella città che un certo modello di sviluppo (Feroce, Idiota, Alienante, Traumatico) ha riempito di auto a dismisura e in cui il traffico e l’arroganza di strada sono tali che fuori dalle zone pedonali si rischia la vita in continuazione (le ciclabili in città sono una vecchia barzelletta, simile a quella della metropolitana).
Contemporaneo flâneur salariato del precariato globale ad alta creatività, gira la città, suona ai citofoni per farsi aprire, parla con tutti (ma proprio tutti) ed entra in relazione con chiunque, gentile o puntuto a seconda dei tempi e dei luoghi. Scatta foto, prende appunti, racconta, scrive.
Parlo da torinese: proprio perché l’autore non è nato a Torino, non appartiene a nessuno degli ambienti wow da cui la città è stata raccontata ed è alieno dai birignao locali, le sue pagine sono lontane tanto dai cliché della motor city fordista del passato quanto da quelli della metropoli della cultura intergalattica, dell’innovazione socialgalvatronica, del cioccolato artistocratico, dell’uncinetto biodinamico in eco-plastica riciclata e di molte altre incredibili avventure della ex-capitale-di-stato-post-olimpica-porticata-e-grattacieluta-in-cui-abbia-vissuto-Nietzsche più bella del mondo.
Nel posto che ha scelto e ama, Yamunin registra solitudini domestiche e compagnie stravaganti, parlate di argot urbano neo-meridionalizzante e accenti irriconoscibili che sono idealtipi sociali prima che marcature regionali o etniche. Ma soprattutto la sua è città vista dal basso, dai tombini, dalle cantine, dai cortili e ad altezza tubo di scappamento. Che dalle periferie alla collina viene percorsa a velocità bici e svelata nella ragnatela di generazioni e ceti che la abitano, nella qualità di laboratorio sociale del contemporaneo che è sempre stata tra vecchie e nuove migrazioni, culture di strada e di palazzi.
Ci voleva l’occhio attento di chi è nato altrove per cogliere Torino nel suo essere acentrica e decentrata, intricata e stratificata, fatta di separazioni e ambienti che non comunicano, persino crudele e sfigurata dal lavoro che non c’è più o c’è ma in modo intermittente (non ha caso centro nevralgico della rivolta forconara).
C’è tanto lavoro in Diario di zona, tra rudezze e complicità da working class, rivolte per di più a un giovane meridionale – ma non autoctono – che fa un lavoro di porte sbattute in faccia o cucine che si aprono come per il nipote perduto, a seconda dei casi. C’è anche la solidarietà che nasce dai tanti cani che annusano e riconoscono i propri o quella tra ciclisti impegnati nella guerra quotidiana a bassa intensità per la vivibilità comune.
Yamunin è animale politico: incontrando legioni di gente marinata nello scontento discute, argomenta e difende posizioni e idee in una conversazione quotidiana che è militanza della civiltà ragionante full time, quella che si è smesso di fare trincerati dietro il lettore mp3 con il volume da sanguinamento orecchie per non sentire più brusio da coda all’ufficio postale e rancore da tribuna politica nel caffè del mattino.
Come nel Teju Cole di Open City, ma non psichiatra di origini nigeriane a New York bensì operaio meridionale a Torino, nelle scorrerie quotidiane di Yamunin trovano posto il sogno privato e il tepore del quotidiano intrecciati alla ricostruzione del mosaico storico che nasce dalla lettura curiosa dei luoghi: risplende malinconicamente la mappatura delle lapidi dedicate alla memoria della Resistenza, registrate con pietas e precisione millimetrica; risaltano netti i segni nel tessuto urbano del movimentismo No Tav o della cultualità del Toro-calcio che una scrittura attenta redime dalle semplificazioni indigeniste o stile impero degli appassionati del genere scontro&sconfitta per restituirle alla loro complessità di nodo sociale e comunitario.
Albergano risonanze e fratellanza in questo libro. Sullo sfondo di una colonna sonora che molti riconosceranno come la propria, scorre la vita di chi non smette di fare domande e sta in un posto per comprenderne altri, trasfigurata da squarci lirici che architettura e natura – fiumi, parchi, animali inaspettati – rendono più nitidi, a testimoniare una continua domanda di libertà e felicità collettiva.
*Fonte articolo: http://www.doppiozero.com/materiali/parole/dai-tombini-di-torino