Diego Giachetti su Erre
Vladimir uno, due…Che fare?
Di Diego Giachetti (da Erre, n. 23, aprile/maggio 2007)
Raccogliendo nove sue lezioni, svolte in occasioni di seminari e gruppi di lavoro, Lidia Cirillo ci costringe a leggerla tutta assieme, non a brandelli, con pause, sospensioni, salti. L’effetto è notevole, pedagogicamente fruttuoso perché, non solo s’impara, ma l’imparato non se ne sta tranquillo nella coscienza, suggerisce, propone, impone nuove domande. Non inganni la copertina e il titolo, è un libro allegramente serio, non sarcastico o carnevalescamente ironico, dove l’allegria è quella coscienza “felice”, raccolta e corporea, del naufrago ungarettiano. Cosa ci portiamo dietro del naufragio del Novecento? Dobbiamo dire davvero, “ciao a Vladimir”? E questo ciao è un arrivederci oppure un addio? E se fosse un addio, ci consolerebbe sapere che il futuro è il presente di oggi?
Il secolo “pesante”
Definito dagli storico “breve”, oppure “lungo”, certo l’eredità del Novecento si presenta pesante, ci mette il piombo alle ali, non ci lascia correre incontro al futuro con un sacco leggero di ricordi sulle spalle. Lidia Cirillo lo sa molto bene ed è molto cauta nelle sue lezioni; infatti, chiamandosi in causa, ci invita a tener conto che le persone della sua età «appartengono a una generazione sconfitta», quindi, nella migliore delle ipotesi, possono «insegnare non come si cambia il mondo, ma come si fa a non cambiarlo e a uscire dal XX secolo». Non è facile – riflettere e porre come problema la sconfitta – e «nello stesso tempo accendere in cuori giovanili la passione per un futuro su cui scommettere l’esistenza», esiste poi il rischio di «trasmettere il disinganno e la depressione senile, di lasciar credere che la fine di un mondo sia la fine del mondo». Attenzione quindi, anche quando parlo di grandi progetti oggettivi, di fenomeni storici, di paradigmi culturali e politici, ci dice l’autrice, ricordatevi che sono pur sempre una donna e soffro, come molte persone «della sindrome della decadenza».
Nel secolo che se n’è andato hanno «convissuto nefandezze e fenomeni liberatori», non è stato solo il luogo dei totalitarismi delle violenze, dei disincanti e dei disinganni, la controrivoluzione e la reazione si sono manifestate in tensione con la rivoluzione, riuscita, fallita, tradita, è stato quindi anche il secolo delle classi subalterne, dei popoli oppressi, delle donne, tutti protesi a lottare e credere nella propria e altrui liberazione. Gli storici e tutti quelli che chiedono lumi al passato sperando di capire il presente dovrebbero innanzi tutto pensare che il presente (il mondo attuale) è soltanto uno «dei tanti possibili risultati che gli scontri e le incertezze dei nostri predecessori avrebbero potuto produrre».[1] Partire da questo assunto è un sano esercizio pedagogico che ci conduce a riprendere in considerazione la parte migliore del nostro passato, strappandola al regno dell’oblio e dei fantasmi, mentre contemporaneamente cerchiamo di fare i conti con gli incubi peggiori.
Soggettività intermittenti
Uno dei principali temi trattati nel libro, oserei dire il filo conduttore, è quello della soggettività, della coscienza dei soggetti collettivi e delle loro dinamiche costitutive. Da questo punto di vista il Novecento è stato fecondo di soggetti molteplici che si sono posti il tema della trasformazione con una carica e una speranza utopica elevata che, una volta sconfitti, hanno lasciato un’eredità pesante di interrogativi e di disillusioni e un bisogno impellente di trovare subito un nuovo soggetto o di ricostruirlo in fretta e furia per soddisfare desideri politici e/o utopici, nel senso positivo del termine. La nostalgia più grande che molti provano riguarda la classe operaia novecentesca alla quale i filosofi marxisti avevano assegnato compiti universalistici, riguardanti non solo la propria liberazione, ma quella di tutti gli oppressi. Nel Novecento si era poi verificato che altri movimenti e altre soggettività trasformative, nascessero o rinascessero a fianco e dentro un clima politico e culturale radicale e democratico, trovando spazi in cui collocare le proprie richieste: era il caso dell’irrompere sulla scena, negli anni settanta, del movimento delle donne e dei femminismi e poi dell’ecologismo, che si inserivano perfettamente in quella che è stata chiamata la stagione dei movimenti antisistemici. Attraverso la pratica dell’autocoscienza si costituì un soggetto nuovo e rivoluzionario, attorno a un metodo che poteva funzionare (e funzionò) in quel determinato momento di radicalizzazione e di polarizzazione dei contrasti, trovando adepte in una mobilitazione sociale già in corso costruita dalle donne della sinistra giovanile dei gruppi dell’estrema sinistra.
Dei movimenti il Novecento ci lascia una eredità duplice: l’intermittanza del loro esistere e la costanza della produzione di ceti burocratici. Lo slancio trasformativo dei movimenti antagonisti e di classe ha prodotto spesso burocrazia, ceto politico, funzionariato di partito e sindacale («il rivoluzionario spesso si è trasformato nel burocrate d’oggi», annota impietosa Lidia Cirillo). I movimenti emergono, travolgono, cambiano, si scontrano, vincono o perdono, poi s’interrano, scompaiono, s’inabissano, per poi riemergere. Ciò determina una situazione di rifondazione permanente dei soggetti, dei movimenti, delle organizzazioni che induce, a livello personale e collettivo, a sensazioni di sconforto, in quanto si ha la percezione di vivere e produrre una fatica politica simile a quella di Sisifo, quindi inutile (?).
Lidia Cirillo dedica un lungo capitolo a quando Sisifo riuscì a portare la pietra in cima alla montagna, riferendosi al «soggetto che prese il Palazzo d’inverno», ben sapendo che poco dopo gli rotolò nuovamente addosso, più grossa di prima. Si tratta di una disamina storica, politica e direi psicologica di come si forma un soggetto classe, di che cos’era quel partito che prese con la classe il Palazzo d’inverno, che mette in luce peculiarità e congiunture storiche tipiche e uniche, facendone un’esperienza, specifica, particolare, talmente ben riuscita da produrre nei decenni novecenteschi seguenti un senso di inadeguatezza e incapacità precostituita a paragonarsi con essa.
Una critica della politica è necessaria e irrimandabile
La politica, in fase di ascesa dei movimenti, si lega al fare e all’agire; è il pensiero che tenta di leggere i rapporti umani per modificarli, ma «non sempre le cose filano lisce, il buon Narciso che vuole cambiare il mondo porta con sé quello cattivo della burocrazia e dei ceti politici»; con queste parole nel libro si pone una questione enorme quando si parla del XX secolo, quella della burocrazia, «autentico nuovo soggetto». Con disincanto e cinismo sociologico Roberto Michels, già nel primo decennio del secolo scorso, aveva scritto un libro per dimostrare che l’organizzazione delle classi subalterne in partiti e sindacati produceva un ceto di professionisti della politica e che i sistemi democratico-borghesi, basati sulla rappresentanza istituzionale non facevano altro che fagocitare questa tendenza immanente e irreversibile (La sociologia del partito politico nella democrazia moderna: studi sulla tendenza oligarchiche degli aggregati politici, 1912). Oggi appare innegabile che l’organizzazione delle classi subalterne ha prodotto un ceto di professionisti della politica, i cui interessi e moventi dell’agire si sono a un certo punto atomizzati e sovrapposti a quelli della classe o dei movimenti ai quali avrebbero dovuto offrirsi solo come rappresentati. Questa è un’eredità del secolo scorso, assieme a quella, simile e ben più disastrosa, dei paesi cosiddetti a “socialismo reale” dimostratisi irriformabili. Un’eredità che ci costringe a porci alcune domande. La prima viene da una ripresa, fatta nel libro, di una riflessione “intelligente e impegnativa” di Costanzo Preve circa la dimostrata incapacità intermodale del proletariato. La burocrazia altro non sarebbe che la dimostrazione che il proletariato, che non è in grado di dirigere la trasformazione delle strutture economico-sociali, non sarebbe una classe rivoluzionaria come lo è stata la borghesia. La seconda sorge dalla constatazione che l’autorganizzazione che avrebbe dovuto essere l’alternativa al modo burocratico di organizzarsi, era tanto «auspicabile quanto difficile da realizzare». Terza osservazione, è ancora possibile parlare di burocrazia, nei termini in cui se n’è parlato nel Novecento? Si e no. Vediamo i no riportati dall’autrice. Siamo dinanzi all’omologazione delle relazioni politiche e sociali che rendono indistinguibili i politici e i ceti politici rispetto alla loro provenienza politica. Oggi il personale politico della sinistra italiana tende ad essere sempre più assimilato, al di là delle intenzioni e delle ideologie, al complesso della corporazione dei politici delle democrazia parlamentari: ne condivide le regole, gli stili di vita, il linguaggio, gli interessi, i privilegi, la tendenza della politica a farsi cricca, gruppo d’interesse a riprodursi in forme “ereditarie”; tutti aspetti non trascurabili, soprattutto perché – e i marxisti (compresi quelli che stanno in parlamento) lo sanno – è pur sempre l’essere sociale che alla fine determina la coscienza e, questo, dovrebbe valere anche per loro, o no? La democrazia rappresentativa, tende a diventare, come ha osservato Marco Revelli su Liberazione del 27 febbraio 2007, «una rappresentazione a porte chiuse», una «deriva oligarchica in cui contano più i rapporti dei leader tra loro che quelli tra rappresentati e rappresentati». Sempre più s’impone una “riforma protestante della politica” che, come a suo tempo abolì nel sacro l’intermediazione tra il popolo credente e Dio, trovi il modo di ridurre drasticamente il peso della “casta sacerdotale” che si frappone fra il popolo e l’esercizio del potere.
Ragion marxista e ragion pragmatica
Uno degli aspetti dell’inattualità di Marx sta proprio nella rottura tra politica e marxismo. Certo si fa un gran parlare, in alcuni ambienti, di Marx. È un discorso, però, che riguarda particolarmente gli intellettuali e gli studiosi, ha scarsissima incidenza sui politici e sulle organizzazioni che fanno politica richiamandosi magari anche a Marx. La ripresa della discussione su Marx e l’approfondirsi della rottura tra marxismo e politica convivono schizofrenicamente. Il ceto politico è diventato sempre più «ignorante» perché della cultura «non ha bisogno, perché non ha progetti, e non ha progetti perché ciò che lo orienta è il pragmatismo». La ragion pragmatica non vuole memoria, non ha bisogno di un pensiero che pensi se stesso, opera in modo strumentale, con un tatticismo neanche più giustificato da una strategia, aggredisce quando si trova in difficoltà. Una politica pragmatica da cui dobbiamo imparare a difenderci. Lidia Cirillo, a proposito, ha elaborato una sua strategia di sopravvivenza. Poiché è «hegelianamente convinta che l’etica non sia separabile dalla ragione, quando non sa dove sia la ragione, poco hegelianamente si affida all’etica nella speranza che la conduca alla ragione».
Tornare a Marx è una scommessa che merita di essere fatta e che si basa sull’ipotesi che il marxismo rappresenti ancora una critica lucida e sistematica del modo di produzione capitalistico. Ma da solo Marx non ce la fa, ha bisogno del soggetto della trasformazione. Forse il punto più basso della crisi del soggetto è superato, c’è ripresa delle lotte in Europa occidentale e la filosofia liberal-progressista della storia si è incrinata, non ha mantenuto le promesse. E c’è bisogno pure di tener conto dell’apporto del “sapere” femminista per trasformare il mondo. Il soggetto donna, che scoprì di essere «un popolo senza storia» poiché, da sempre oppressa dall’uomo, non aveva mai potuto manifestare né costruire una propria soggettività, trovò nella psicanalisi e nell’antropologia gli elementi costitutivi di una critica all’«androcentrismo dei saperi». Non è un caso che la teoria femminista abbia maggior dimestichezza coi saperi della psicanalisi e dell’antropologia, elementi che vengono prima dello “storico” e del “filosofico”, che sono strutture culturali già segnate da una divisione-sopraffazione tra uomo e donna e quindi poco utilizzabili alla comprensione di una dimensione soggettiva, femminile, che parte da uno stato di mancanza di un mondo proprio e quindi di una storia e di una filosofia. Il contributo del femminismo è soprattutto un apporto di “civiltà”, un «soggetto civilizzatore» in quanto critica del potere patriarcale e della violenza di genere, che sta alla base delle strutture e la cui dimensione non è storica, ma antropologica e psicanalitica e riguarda le relazioni di potere tra i sessi.
Ritroveremo il soggetto?
Le cose perse difficilmente si ritrovano, quindi non ritroveremo i vecchi soggetti perduti nel naufragio novecentesco. E non si tratta di trovare qualcosa che non c’è, ma di ragionare, quando c’è, sul soggetto così come si presenta. In questo senso abbiamo già visto all’opera due tentativi di ricostruire una nuova soggettività: l’esperimento di costruzione di Rifondazione comunista e il movimento dei movimenti; il bilancio che possiamo trarne non è ancora completamente chiaro, certo entrambi hanno contribuito ad avviare un processo di ripensamento della rivoluzione, «una rivoluzione però di un altro tempo, di cui ancora non è prefigurabile il soggetto». Così finisce il libro, lasciando spazio a domande e riflessioni.
[1] Mark Mazower, Le ombre dell’Europa, Garzanti, Milano, 2000, p. 11