Enzo Traverso da “il manifesto”
Un melanconico trovatore per il pensiero eretico
Enzo Traverso
Articolo pubblicato su “il manifesto” del 3 marzo 2012
Come il suo autore, morto due anni fa al termine di una vita intensa e di una lunga malattia, questo libro è difficilmente catalogabile (Una lenta impazienza, trad. di T. Pierini e B. Seban, Edizioni Alegre, pp. 505, euro 22). Non è lo specchio di una generazione, perché l’itinerario esistenziale che vi è narrato è assai singolare, e non è neppure l’ennesima testimonianza di un annus mirabilis sul quale esiste ormai una nutrita biblioteca in numerose lingue, benché le vicende del maggio francese vi siano narrate con la freschezza e il fervore di chi le ha vissute, convinto che la storia gli «mordeva la nuca» e che per nessuna ragione al mondo dovesse mancare i propri «appuntamenti, politici e amorosi». Si potrebbe leggere come una storia della Francia del dopoguerra – dall’indipendenza dell’Algeria a Sarkozy, passando attraverso le barricate del Sessantotto e la parentesi mitterrandiana – scritta da un outsider, atipico da tutti i punti di vista, sia come scrittore sia come filosofo e dirigente politico. La sua scomparsa suscitò una grande emozione, ben aldilà della sinistra radicale, e fu sentita da tutti come una perdita incolmabile, anche da parte dei suoi nemici.
Oltre l’indegna storia
La sua lettura di Marx era sicuramente marxista, fedele al postulato della necessità d’interpretare il mondo per trasformarlo, ma il suo marxismo non era né apologetico né conservatore. Il suo libro più ambizioso, Marx l’intempestivo (1995), non si prefiggeva lo scopo di riscoprire un Marx «autentico» ma di sondarne le contraddizioni e le potenzialità. Si trattava di metterne in luce il conflitto intimo, profondamente radicato nella cultura del suo tempo, tra un modello scientifico positivista (l’analisi delle leggi di movimento del capitalismo, l’ammirazione di Darwin) e una visione della lotta di classe come motore della storia, segnata dall’influsso della dialettica hegeliana. Tutta l’opera di Marx è attraversata dal contrasto fra una tentazione positivista e l’intuizione della metamorfosi – di cui sarà teatro il secolo XX – delle forze produttive in mezzi di distruzione, in regressione sociale. Progresso e declino, scriveva Daniel Bensaïd, sono inseparabili, uniti nella danza infernale dell’universo mercantile e del mondo reificato. Incline ai paradossi dialettici, egli amava dirsi seguace di un genere alquanto particolare: il «leninismo libertario». I suoi libri fanno dialogare il passato e il presente in una miscela ribollente di filosofia, storia, letteratura e politica. In Moi, la Révolution (1989) sbeffeggiava i fasti di un «bicentenario indegno» e restituiva la parola a una Rivoluzione francese che, scavalcando le barriere delle commemorazioni, aveva ritrovato il suo posto nella sollevazione degli oppressi, per riprendere il cammino di un’emancipazione rimasta incompiuta. In Jeanne de guerre lasse (1991) riscopriva Giovanna d’Arco come femminista, contro le appropriazioni nazionaliste che da secoli ne avvolgevano la memoria. In un saggio su Walter Benjamin, «sentinella messianica», rimetteva all’ordine del giorno la tradizione dell’ebraismo eretico che va da Spinoza a Trotskij, passando attraverso Marx e Freud. «La vita di Benjamin non ha mai cessato di pulsare controtempo», scriveva nelle prime pagine del libro, prima di ritornare sul «tradimento» di Spinoza, presentandolo come «l’antisionismo ebreo dell’ebreo ateo», una posizione che aveva fatto propria, durante gli ultimi anni, nei dibattiti sul conflitto israelo-palestinese.
Dalle pagine fiammeggianti di Una lenta impazienza emerge, ricomposta nei molteplici frammenti di una vita, la figura di un passatore. Un anello di congiunzione, innanzi tutto, fra tradizioni diverse: dopo la caduta del muro di Berlino, Daniel Bensaïd ha saputo traghettare il trotskismo, la componente principale della sinistra radicale francese, nel XXI secolo, facendolo dialogare con altre correnti del pensiero radicale, dalla scuola di Francoforte alla cosiddetta French Theory, che raccoglie l’eredità del post-strutturalismo.
Vivere con spettri mortali
Attraverso una rivista come Contretemps, svolse il ruolo di passatore fra diverse generazioni militanti e intellettuali, riuscendo a far incontrare quel che rimaneva del Sessantotto con i giovani che avevano scoperto l’impegno politico in seno al movimento no global degli anni Novanta. Un passatore, infine, tra i movimenti rivoluzionari di diversi paesi e continenti. La sua appartenenza alla Quarta Internazionale – il «Komintern bonsai», come scrive con autoironia – lo aveva fatto viaggiare incessantemente fin dagli anni Settanta. Una lenta impazienza offre un ritratto non convenzionale dell’estrema sinistra spagnola al crepuscolo del franchismo, della rivoluzione portoghese o del congresso di scioglimento di Lotta continua, al quale partecipò come delegato della «Ligue communiste» francese. Nel decennio successivo tenne a battesimo il Partito dei Lavoratori brasiliano, allacciando rapporti di amicizia con molti dei suoi dirigenti. Questa esperienza della diversità degli esseri umani e delle culture costituiva il sostrato antropologico del suo pensiero politico, agli antipodi di un internazionalismo astratto e dottrinario. La sua assidua frequentazione dell’America latina negli anni Settanta lo mise in contatto con molti militanti che in seguito sarebbero morti combattendo, durante l’esperienza tragica della guerriglia. Il loro ricordo l’aiutò, vent’anni dopo, a sopravvivere sapendo di essere malato di Aids: «A forza di frequentare spettri e fantasmi, la prova della malattia mi aveva fatto passare dalla loro parte».
Sulla malattia, Daniel Bensaïd fu sempre discreto. Non era una fuga, ma una forma di pudore e una condizione di sopravvivenza. Nel 1996 aveva sfiorato la morte, e da quel momento il ritmo delle sue pubblicazioni divenne frenetico. L’elenco dei libri scritti dall’inizio degli anni Novanta è impressionante, vertiginoso. L’eleganza stilistica sembra talvolta colmare le brecce lasciate da una riflessione incompiuta, lanciata in una corsa contro il tempo. «Sapersi mortali», si legge in questa autobiografia, modifica le prospettive, introduce una nuova percezione del tempo: «si cerca di vivere l’istante, seguendo la voglia e l’ispirazione».
Permanenti biforcazioni
Questa condizione esistenziale non è estranea alla sua concezione della storia come kairos e irruzione dell’evento, agli antipodi di ogni temporalità lineare. Sulla scorta di Blanqui e Benjamin, Bensaïd pensa la storia come campo dell’ignoto e del possibile, come un accadimento eterogeneo fatto discordanze e cesure temporali, di crisi e guerre, un incrocio aperto a una molteplicità di scelte, un processo fatto di «biforcazioni» permanenti. Nulla è ineluttabile. Riassumendo in una frase la sua visione della storia come processo politicamente intelligibile e strategicamente pensabile, Bensaïd amava citare Gramsci: «Possiamo prevedere soltanto la lotta».
In un’epoca in cui la dialettica storica tra utopia e memoria sembra spezzata, in cui non c’è più un orizzonte di attesa e il campo d’esperienza si è ridotto a un cumulo di macerie, il marxismo di Daniel Bensaïd prendeva una tonalità melancolica. La rivoluzione diventava una sorta di scommessa pascaliana, fondata sul rifiuto radicale della «dottrina detestabile del fatalismo storico». Questa scommessa non nasconde il suo fondo messianico, scrive Bensaïd pensando a Benjamin, poiché «conserva una parte di religiosità pagana e un sapore sacro». Non lo disturba l’idea di coltivare «la confusione tra Rivelazione e Rivoluzione».
A conclusione di un secolo di ferro e di fuoco, quando nel nostro immaginario le locomotive non evocano più le rivoluzioni, secondo la celebre metafora di Marx, ma la rampa di Auschwitz, il marxismo si circonda di un alone melancolico: La scommessa melancolica (Le pari mélancolique) rimane uno dei suoi libri più belli e profondi. Per lui che rifiutava ogni concezione sacrificale della militanza, questa melancolia era il contrario della rassegnazione. «Militare è il contrario di una passione triste. È un’esperienza gioiosa, nonostante i momenti brutti. Il mio partito, come quello di Heine, è il partito dei fiori e degli usignoli».