Figlia di una vestaglia blu – Enzo Di Brango da “Le Monde diplomatique”
Da Le Monde diplomatique
C’è un refrain che si sente sempre più spesso: il progresso delle tecnologie dell’informazione e delle scienze della comunicazione ha radicalmente modificato l’economia e le relative dinamiche del lavoro. Lo sviluppo del settore dei servizi e, più in generale, del terziaro avanzato, da semplicisticamente dedurre a molti superficialotti (che oggi trovano, più facilmente che altri, spazio in talk show e carta stampata) che la classe operaia sia sparita dai radar sociali. Lo aveva anche sostenuto Toni Negri con cospicuo anticipo (2003) sulla pletora qualunquista imperante: «Se la classe operaia è morta – il che è vero – l’interno sistema legato a quei rapporti di forza entra in crisi». Simona Baldanzi invece ci dà, con il suo Figlia di una vestaglia blu, una chiave di lettura credibile e sociologicamente più coerente. Accadde nel 2006 quando questo romanzo operaista (ma che può essere letto anche come agile saggio sul lavoro ai tempi del neoliberismo) esce per i tipi di Fazi. A distanza di quasi tre lustri Alegre lo ripropone ai lettori nella collana Working class. Siamo nel Mugello agli inizi di questo XXI secolo. Baldanzi decide di scrivere la sua tesi di laurea sui minatori che forano le montagne del Mugello per il nuovo passante dell’Alta Velocità ferroviaria tra Firenze e Bologna. Distribuisce questionari nei cantieri arroccati sull’Appennino toscoemiliano, ai lavoratori (quasi tutti meridionali) che di giorno sono impegnati a far avanzare gallerie macinando la roccia e di notte dormono all’interno del cantiere sonni agitati dall’incubo di un infortunio o di un incidente mortale (e ce ne furono!), con il poco tempo dedicato al pensiero nostalgico della famiglia lontana, della moglie e dei figli che attendono il magro mensile per andare avanti. Simona Baldanzi decide di rapportare l’esperienza di questi lavoratori con quella dei suoi genitori, in particolare di sua madre, operaia per molti anni alla Rifle jeans e ora pensionata. Ne viene fuori una storia di orgoglio operaio e consapevolezza di genere che smentisce i luoghi comuni sulla morte della classe operaia e ridefinisce un quadro complessivo dove donne e uomini sono ricompresi in una paritaria dimensione di classe: forare montagne e cucire passanti ai jeans, tutto sommato, non rappresentano solo un obbligo contrattuale, è l’essenza viva di una quotidianità di classe che esiste e resiste al di là dell’assenza dei partiti di riferimento e di quel sindacato confederale che ormai non c’entra più nulla con quei lavoratori che dovrebbe rappresentare. E se il neoliberismo tenta vieppiù di ripristinare la forza bruta cancellando diritti conquistati in anni di lotta, questo bel racconto di vita quotidiana restituisce la bellezza e la speranza della lotta di donne e uomini che conservano intatta la voglia di cambiare l’attuale ordine delle cose.