Geraldina Colotti su Le monde Diplomatique
Il Libano tra rovine e speranza
di Geraldina Colotti (da le Monde Diplomatique di maggio 2007)
Il 23 agosto 2006, il Washington Post pubblicava i risultati di un sondaggio sulla popolarità dei leader arabi. Lo aveva realizzato in Egitto per l’Ibn Khaldun Center for Development Studies prendendo a campione 1.700 persone su tutto il territorio nazionale. L’82% degli intervistati sceglieva Hassan Nasrallah, attuale segretario generale del partito politico sciita libanese Hezbollah, il 73% il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, il 60% Khaled Meshal di Hamas, il 52% Osama bin Laden e il 45% Mohammed Mahdi Akef dei Fratelli musulmani egiziani. Si trattava di un’inchiesta (reperibile sul sito www.eicds.org) realizzata a poca distanza dalla fine dell’ultima guerra in Libano, condotta da Israele contro Hezbollah: 33 giorni di bombe – dal 12 luglio al 14 agosto – , 1.500 vittime fra i civili libanesi, (una cinquantina in Israele), ma nessuna vittoria. Partono da questi dati Gilbert Achcar e Michel Warschawski, autori del libro La guerra dei 33 giorni (1), un pamphlet stringato, ma denso di spunti teorici e considerazioni a largo spettro sugli scenari ipotizzabili dopo l’ultima guerra mediorientale. Allora, un arco di forze che andava dal Partito di Dio al Partito comunista libanese aveva tenuto testa all’esercito israeliano, ribaltando i pronostici. La gestione «post eroica» degli affari militari (secondo la definizione dello stratega Edward Luttwak), sempre più affidata alle macchine e meno agli umani, era stata battuta dall’eroismo delle truppe avversarie, poco tecnologiche ma assai motivate. La «guerra al terrorismo», anziché disarmare Hezbollah, aveva trasformato l’organizzazione integralista islamica sciita in uno degli attori più importanti dello scacchiere nazionale e mediorientale, procurandole consensi anche nel campo dei non musulmani. Anziché distruggere il «terrorista» Nasrallah lo aveva fatto diventare l’eroe arabo più popolare dopo Nasser. La strategia di «balcanizzazione» etnica, perseguita da Washington e Israele nella prospettiva del «Grande Medioriente», invece di innescare la guerra civile fra i libanesi, ne aveva coagulato i risentimenti, spingendoli a unirsi contro Israele. Quali lezioni saprà trarre, a Tel Aviv, una classe politica abituata a ottenere il consenso fidando soprattutto sui sogni di guerra? si chiede Warschawski, intellettuale autorevole della sinistra israeliana. E fornisce uno sguardo attualissimo sul retroterra politico che ha spinto Israele all’aggressione, sulla crisi del pacifismo storico e su quella dell’establishment seguita alla mancata vittoria militare. Dal canto suo, Achcar, coscienza critica della sinistra libanese ed esperto della situazione statunitense, inserisce quei 33 giorni nel quadro dei rapporti regionali, in quello degli interessi europei e nel contesto di «guerra infinita» proclamata da Bush. La crescita di Hezbollah è osservata con metro laico, senza pregiudizi e nell’intento di evidenziare anche i vuoti di proposta e di alternativa che, all’interno del nazionalismo progressista arabo e nella sinistra, ne hanno favorito l’avanzata. Nato nel solco della rivoluzione iraniana del ’79 e della situazione creatasi in Libano dopo l’invasione israeliana del 1982, Hezbollah ha saputo anche costruirsi una solida base sociale, intercettando i bisogni delle masse sciite libanesi. Si è forgiato nel corso di lotte accanite contro il Partito comunista libanese nel post ’82, contro le truppe siriane, nell’87, e poi contro l’ala sciita moderata di Amal nell’88. Ma, dopo aver progressivamente abbandonato il progetto di trasformare il Libano in una repubblica islamica sul modello iraniano, si è trasformato in un partito politico che accetta il sistema multiconfessionale, ha 14 deputati in parlamento e gestisce un capillare sistema di welfare nelle zone povere sciite, da cui proviene Nasrallah. Ne danno conto anche altri due libri che analizzano il ruolo e la natura di questa particolare formazione islamica. Entrambi recano l’impronta di Stefano Chiarini, giornalista del manifesto, scomparso a 55 anni il 5 febbraio scorso. Attento osservatore dell’area mediorientale, ma anche uomo d’impegno, Stefano accompagnava spesso delegazioni e carovane nei luoghi del Medioriente più esposti ai soprusi: dal massacro dei profughi palestinesi a Sabra e Chatila, a quello di Cana, durante l’ultima guerra… Raccoglieva lacrime e rabbia, analizzava senza perifrasi quei fatti scomodi che hanno la testa dura, come l’aveva lui. Fu tra i primi a cogliere il ruolo di punta, controverso e specifico, delle diverse organizzazioni islamiche nei singoli paesi, a spiegarne mutazioni e ambiguità. Nel paese dei cedri, che conosceva bene, era tornato insieme a un gruppetto di giornalisti anche dopo l’aggressione israeliana del luglio 2006. Il resoconto di quel viaggio è raccolto nel volume di Raffaella Angelino e Maurizio Musolino Il popolo di Hezbollah, introdotto da Manuela Palermi (1). Parlano le donne intente a seppellire i morti, fiere e dolenti. Parlano i sindaci di Ghobeiry, Sidone, Tiro e Baalbek. Parlano i palestinesi dei campi profughi, che hanno sostenuto la resistenza libanese raccogliendo pane e carburante, nonostante vivano di lavori precari e degli aiuti dell’Unrwa, sempre più ridotti. I profughi infatti sono cittadini di serie b. Per iscriversi all’università pagano 5 volte di più dei libanesi, eppure – se anche avessero dei beni, non avrebbero diritto di possederli. Prima erano 350.000, ora 100.000 di meno. Molti quadri politici sono rientrati nei territori, gli altri sono emigrati verso i paesi arabi, o verso l’Australia e il Canada, o in Europa, e mandano qualche soldo a chi resta… Durante l’ultimo attacco israeliano, i campi sono stati risparmiati, le bombe sono cadute intorno, anche se il «disarmo dei palestinesi», insieme a quello di Hezbollah, richiesto a gran voce nel corso dei negoziati, resta ancora in ballo. Anche qui, come nelle zone sciite, il radicalismo islamico miete consensi.
Anche qui, ci sono diseredati in cerca di riscatto. Piaccia o meno, Hezbollah non è un semplice megafono di Tehran, come vorrebbero certi analisti occidentali, ma un movimento islamo-nazionale a vocazione sociale, dice Stefano Mauro nel volume Il radicalismo islamico, (3). Mettere sullo stesso piano chiunque non accetti lo status quo delle occupazioni israeliane del ’67 – che si tratti dei territori palestinesi della West Bank, o delle fattorie di Sheba e delle alture di Kfar Shuba in Libano, o del Golan in Siria – e cavarsela con la categoria di “terrorismo” serve solo alla grancassa mediatica della “guerra preventiva”. Il suo libro – un agile compendio che si propone come “ponte fra le culture”, spiega le differenze storico politiche tra sunniti e sciiti e le loro diverse diramazioni.
«Certamente – scriveva Stefano Chiarini nella prefazione – questi cambiamenti dei movimenti islamo-nazionalisti non sono privi di contraddizioni, ma sembra proprio che il loro essere, da una parte, baluardo contro al Qaeda e, dall’altra, avversari di una pax israelo-americana, ne stia facendo i protagonisti della scena mediorientale».
Inutile nascondere la testa sotto la sabbia. Anche perché, come scrivono Achcar e Warschawski, gli attentati compiuti o tentati nelle capitali occidentali, dimostrano che «è finito il tempo in cui le metropoli potevano vivere nella spensieratezza mentre i loro eserciti conducevano spedizioni coloniali».
note:
(1) Gilbert Achcar e Michel Warschawski La guerra dei 33 giorni, Edizioni Alegre, 2007, 12 euro.
(2) Raffaella Angelino e Maurizio Musolino, Il popolo di Hezbollah, Datanews, 2006, 12 euro.
(3) Stefano Mauro, Il radicalismo islamico, Edizioni clandestine, 2007, 10 euro. L’autore presenterà il libro il 1° giugno alle 18 a Roma alla Libreria Alegre interno 4, Circonvallazione Casilina, 72-74.