Gianni Lucini su Liberazione
Caterina Caselli il beat anti
maschilista
di Gianni Lucini
Non è una biografia quella che Diego Giachetti dedica alla Caterina da Sassuolo nel libro Caterina Caselli, una protagonista del beat italiano uscito per i tipi delle Edizioni Alegre, o meglio non è l’aspetto biografico quello che interessa di più all’autore. Il compito che egli si assume è quello di analizzare il rapporto tra i mutamenti di linguaggio della musica pop degli anni Sessanta e i movimenti giovanili che faticosamente si stanno componendo nella società. Con questo taglio accompagna il lettore nella vicenda personale e artistica di una ragazza come tante nata nella opulenta Emilia che pian piano diventa un modello e un’icona per quelle che oggi verrebbero definite bad girls. Lo fa tutt’altro che inconsapevolmente visto che, nel pieno del successo, a Beppe Bonazzoli di “Giovani” che alla fine degli anni Sessanta le chiede se preferisce cantare per i reali d’Inghilterra, lo Scià di Persia o Nixon risponde tranquillamente che l’unico per il quale si esibirebbe volentieri è… Fidel Castro. Una ragazzaccia consapevole di esserlo. Eppure i primi passi di Caterina sono uguali a molte altre protagoniste della musica adolescenziale di quel periodo con qualche disco cantato con voce pulita e destinato a un pubblico giovanile che i discografici immaginano ancora languido e romantico. In Italia non lasciano traccia, ma riscuotono un discreto successo nei paesi di lingua spagnola dove vengono pubblicati con titoli che fanno sorridere come “Me aburro los domingos” o “Me siento timida”. La patinata e un po’ svanita immagine costruita dai primi discografici cozza contro una ragazza che non ha alcuna intenzione di “fare la femmina” in un mondo dove i maschi fanno la parte da leone. Bastano pochi mesi e Caterina, che già da tempo nelle esibizioni dal vivo canta e suona il basso con il suo gruppo, partecipa al Cantagiro con una canzone maschile e un piglio da cantante blues. Il brano si intitola “Sono qui con voi” ed è la versione italiana di “Baby please don’t go” dei Them di Van Morrison. E’ il 1965 e la ragazza dà scandalo rompendo lo schema maschilista della musica dell’epoca. Canta canzoni “da maschi” e impugna il basso. La critica la guarda un po’ con sospetto e il pubblico resta impressionato. Cantare “da maschio”, parlare da maschio e comportarsi da maschio: è questa la provocazione. Giachetti assume questo punto di vista inserendolo nell’evoluzione dei costumi e della battaglia per nuovi diritti civili delle giovani generazioni italiane. Nell’esercizio recupera tutta la produzione artistica di Caterina, dalla fortunata “Nessuno mi può giudicare”, una furba operazione commerciale nata dall’accelerazione in quattro quarti di “Fenesta ca lucive”, alle esperienze più marginali dal punto di vista del successo discografico ma molto interessanti per capire l’impronta della cantante come il caso di brani “rubati” agli interpreti maschili e inseriti nelle raccolte a trentatrè giri. Proprio su queste punta la sua attenzione. Canzoni come “Puoi farmi piangere”, versione italiana di “I put a spell on you” portata al successo da Gianni Pettenati o “L’ombra di nessuno” dei Primitives, tutte scritte e conosciute al maschile, vengono assunte dalla Caselli, fatte proprie e volte al femminile. Sono piccole esperienze di nicchia, visto che all’epoca in cui vengono realizzate non vedono mai la luce su quarantacinque giri, ma finiscono nei concerti e negli album (in un’epoca in cui l’album non è concepito come un’opera a se stante ma solo come una raccolta di successi). La scelta cerca la complicità dei fans e, soprattutto nelle fans più affezionate per affiancarla nella provocazione più azzardata: rivendicare la propria alterità rispetto alla situazione di rigida separazione dei ruoli nella musica italiana. Lo fa prima di Patty Pravo e quasi in contemporanea con Evy, un’altra bad girl del periodo meno baciata dal successo. In questa visione appare decisamente singolare la capacità di Caterina di trasformare con l’arma dell’ironia canzoni come “L’orologio”, un prodotto in serie della ditta che lascerà ai posteri “Fin che la barca va” o di dare vigore nuovo alle canzoncine di protesta come “E’ la pioggia che va” o “Le biciclette bianche”. Giachetti ne fa uno dei simboli di quel “movimento beat” che nasce dalla musica, attraversa il costume, si salda alle lotte sociali e sfocia poi nel Sessantotto. Il libro, che si sviluppa come un racconto con diversi piani-sequenza accompagna il lettore nel fenomeno beat italiano, un movimento complesso in cui la contrapposizione tra generazioni metteva le radici alla contestazione delle stesse strutture della società. Se si può dire così, è un libro da leggere e ascoltare con l’orecchio interiore, quello che in genere non tradisce mai.
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