Gigi Roggero da il manifesto
Fortune e disgrazie di uno stile politico oltre la tradizione
Gigi Roggero (da il manifesto del 27/09/2008)
«Noi non ce l’aspettavamo, però l’abbiamo organizzata»: così Romano Alquati rispondeva alla domanda se si attendessero l’esplosione di piazza Statuto. Quel noi sono gli operaisti, costellazione teorico-politica di cui Steve Wright ricostruisce con rigore e curiosità percorsi e stile politico tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta, tra Quaderni Rossi e Classe Operaia , Potere Operaio e l’Autonomia operaia. Uno stile politico che si forma nella rottura con la cultura di sinistra, nella «depurazione marxiana del marxismo»: il rovesciamento di segno e l’unilateralità del punto di vista sono i suoi tratti costitutivi. Ed è con un’altra rottura, interna, che la storia dell’operaismo effettivamente comincia: quella nei Quaderni Rossi .
Dopo piazza Statuto, osservazione critica e intervento politico diretto, rappresentanza e autonomia, inchiesta e conricerca, forza-lavoro e classe operaia non possono più stare insieme. Se poi l’operaismo non è riuscito a portare Lenin in Inghilterra, ha tuttavia «portato» Marx a Mirafiori e Porto Marghera. O meglio, ha letto Marx a partire dalla nuova composizione di classe. Proprio questa categoria è, perspicuamente, la chiave dell’analisi di Wright, ovvero la «relazione tra la struttura materiale della classe operaia e il suo comportamento come soggetto autonomo». Il rapporto tra composizione tecnica e politica, incarnato dalla conricerca, rompe da un lato con la dialettica tra classe e capitale basata sulla deterministica specularità tra condizioni oggettive e stadi di trasformazione; dall’altro, con la tradizione idealistica della coscienza, fondando l’autonomia dei comportamenti operai sulla materialità dei processi di conflitto. La discussione dei problemi sollevati da Wright necessiterebbe di ben altro spazio.
Un punto merita tuttavia di essere affrontato, seppur sintetiticamente. L’operaismo è genealogicamente una cultura politica del conflitto, irriducibilmente di parte, in cui la produzione di sapere è indissolubilmente legata alla lotta. La necessità di «afferrare l’occasione» non è dunque frutto dell’impazienza, come l’autore sostiene, ma dell’organizzazione del rapporto, sempre mutevole e aleatorio, tra strategica politica, composizione di classe e congiuntura «rivoluzionaria». Così, lo stile operaista continua oltre la fine dell’operaismo e dell’operaio-massa, reinventandosi in un movimento di pensiero, senza ossificarsi in una scuola. Nella postfazione al volume, invece, Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba ripropongono le tradizionali critiche all’operaismo, che vorrebbero edulcorare da quelle che ritengono essere le sue forzature ed eccessi. Insomma, una sorta di «depurazione marxista dell’operaismo», per farne ciò che non è mai stato, una delle tante eresie della tradizione comunista.
Chi, anche di recente, ha vagheggiato un operaismo senza e contro gli operaisti, tutto sommato crede che piazza Statuto basti – oggettivamente – aspettarsela: per questo non si preoccupa di organizzarla. Tuttavia, anche le critiche accanite non fanno altro che testimoniare la potenza del suo stile politico, che il prezioso libro di Wright con intelligenza racconta.
LIBRI STEVE WRIGHT, L’ASSALTO AL CIELO. PER UNA STORIA DELL’OPERAISMO , EDIZIONI ALEGRE, PP. 334, •EURO 20