I due marò, il Pd e i giornalisti. Alessandro Gilioli dal blog Piovono rane
Di Alessandro Gilioli, dal blog dell’Espresso “Piovono rane” del 22 aprile 2013
Poco fa sentivo alla radio Nico Stumpo, dirigente del Pd (foto sopra, in mezzo), vantarsi perché il suo partito nei giorni scorsi «non ha ceduto ai tweet». Ieri sera a Roma, alla libreria Fandango, ho presentato con Matteo Miavaldi questo suo libro appena uscito sui ‘due marò’. Le cose sono molto collegate, anche se a prima vista probabilmente non sembra. (post lungo)
Iniziamo dal libro. Che racconta con puntigliosità giornalistica di altri tempi – o di altri Paesi – la vicenda dell’Enrica Lexie, dei pescatori indiani, delle ‘acque contigue’ in cui è avvenuto l’incidente e così via. Tutto da leggere, riga per riga, per chi vuole farsi un’idea informata su com’è davvero andata quella storia lì, dal 15 febbraio dell’anno scorso in poi.
E questo è un piano di lettura. L’altro – quello di cui voglio parlare qui – è invece tutta la questione mediatica. Cioè come è stata raccontata la vicenda dei due marò dai giornali italiani. Fuori gara per cialtroneria ballistica ‘il Giornale’ e ‘Libero’, al concorso di disinformazione collettiva hanno tuttavia partecipato a voce alta (dal libro emerge senza possibilità di smentita, gli archivi sono impietosi) anche gli altri quotidiani, quasi tutti, ‘Corriere della Sera’ e ‘Sole 24 Ore’ in testa.
C’è voluto un ragazzo di 25 anni – collaboratore di un sito sull’Asia, nessuna tessera giornalistica in tasca, ovviamente precario, che si è appassionato al caso lavorandoci dalla sua casa nel Bengala Occidentale – per fare tutto quello che i giornali non hanno fatto. Telefonare, verificare, smontare, ristabilire com’erano andate veramente le cose.
Scoprire ad esempio che “la perizia super partes di un ingegnere” secondo la quale i marò non avevano ucciso i pescatori – ampiamente ripresa dai quotidiani nostrani – era in realtà un lavoro di ritagli proprio dai giornali italiani (quelli di destra, fra l’altro) realizzata da un signore che ingegnere non era affatto, ma in compenso era un militante di CasaPound.
Oppure – e qui si sfiora il ridicolo – che i colpi non potevano essere stati sparati dalla marina dello Sri Lanka (come avevano scritto alcuni inviati italiani) perché lo Sri Lanka si trova est dell’India e il Kerala sta sulla costa occidentale, no way, le navi cingalesi non si sono mai sognate di andare a pattugliare dall’altra parte.
O ancora, che sulla costa del Kerala i pirati somali (o di altra nazionalità) non si sono quasi mai visti, contrariamente a quel che si diceva qui da noi.
O infine, che la campagna per “salvare i marò” dalla pena di morte era un bluff colossale, non essendo questa prevista in India per i reati contestati a Girone e Latorre.
E così via, insomma.
Ma il problema non è tanto che i giornali cannassero, chi per pigrizia chi per ideologia.
Il problema vero è che gli articoli precisi e documentati scritti da Matteo on line – su ChinaFiles o su WuMing, oltre che ovviamente sui social network – circolavano viralmente in Rete (parliamo di centinaia di migliaia di visualizzazioni in pochi giorni) senza essere minimamente ascoltati dall’establishment giornalistico italiano. Che non solo non ha rettificato le proprie castronerie, ma ha continuato imperterrito a rifilarne di nuove ai propri lettori.
Così a poco a poco, su questa vicenda dei marò, si è creato uno iato tra due mondi mediatici: una “narrazione tossica” che si perpetuava sui mainstream media e una serie di inchieste accurate che circolavano on line. Il rovesciamento perfetto del luogo comune secondo il quale la Rete è un ricettacolo di bufale mentre la stampa professionale garantisce attenzione, precisione e verifica.
Per farla breve: i giornali, l’establishment mediatico italiano, non ha ascoltato. «Non ha ceduto ai tweet», direbbe l’orgoglioso Stumpo. Con quale bel risultato, salta agli occhi subito a chi legge il libro di Matteo: una figura di palta da stracciare la tessera (quella dei giornalisti, intendo, in questo caso: ma è uguale).
Ecco: l’importanza dell’ascoltare, lo si è detto qualche giorno fa. Che non è cedere, lo capisce anche un bambino: è confrontarsi, aprirsi, contaminarsi. Anche con quelli che stanno al di fuori dell’establishment (politico o mediatico, è lo stesso) e che parlano attraverso la Rete, non avendo altro modo.
Perché la Rete non è un partito politico e non esiste un ‘popolo del web’: esistono persone in carne e ossa che usano la Rete per parlare. Quindi in Rete ci sono tante sciocchezze e tante bufale, tante minoranze e tante nicchie, tanti cospirazionisti e tanti insultatori fuori di testa – è ovvio – ma sta a chi vuole ascoltare «separare il grano dal loglio», come mi ha insegnato tanto tempo fa Massimo Mantellini.
Di qui l’ultima stupidità diffusa tra i politici quanto fra i giornalisti – Nico Stumpo ne è solo emblema e metafora, per carità – per cui «la new entry giornalistica è “se twitter detta l’agenda” e il politico risponde “il web non mi fa paura”» (Arianna Ciccone oggi su Facebook e qui). E cito ancora Arianna: «Tranne rarissime eccezioni c’è una totale incapacità di comprendere e raccontare quello che sta succedendo fuori dal Palazzo. Totalmente inadeguati. Questa è la crisi del giornalismo, esattamente questa».
Ecco: oggi nel Palazzo che si sente “assediato” dalla Rete ci sono dentro sia i politici (non tutti, ma quasi) sia i giornalisti (non tutti, ma quasi).
Brutto affare: per la politica, per il giornalismo – e per chi crede che queste due cose possano (debbano) servire al Paese.