I lupi, le conseguenze di un ambivalente ritorno – Massimo Filippi da “il manifesto”
Da il manifesto
Le conseguenze del ritorno (Alegre, pp. 173, euro 15) di Luca Giunti, guardiaparco e «naturalista appassionato», «non è un saggio, non è una pubblicazione scientifica, non è un romanzo», ma «un oggetto narrativo non catalogato» che, con acume e rigore, racconta di come i lupi stiano tornando a popolare le nostre montagne insieme alla meraviglia e alla paura che da sempre li accompagnano.
Prossimi all’estinzione, «i cento lupi del 1970 hanno resistito arroccati nelle zone più aspre e disabitate d’Italia» e «oggi sono ufficialmente circa duemila» – in futuro «potrebbero arrivare a quattromila», al più «a seimila». Le ragioni del loro ritorno sono molteplici, ma tutte secondarie al progressivo inurbamento e alla maggiore industrializzazione del Paese a partire dal dopoguerra: «Mentre donne e uomini scendevano dalle montagne, i lupi le risalivano».
Non senza conseguenze, però, perché «quando arriva il lupo, nulla può più rimanere come prima». Visti i tempi in cui viviamo, non stupisce che le conseguenze più gravi, quelle che fanno vaneggiare su presunte invasioni epocali – e qui Giunti fa bene a ricordare le medesime grida reazionarie che si levano di fronte ad altri flussi migratori –, siano ritenute essere le ricadute economiche a carico di allevatori di ovini e del settore venatorio.
Dati alla mano, l’autore ci mostra, tuttavia, che questo impatto è modestissimo e di facile soluzione senza neppure la necessità di ricorrere a inutili – e criminali – abbattimenti selettivi.
Le conseguenze del ritorno hanno perciò più a che fare «con il lupo incastrato nella nostra memoria sociale che con i lupi veri in carne e ossa e denti aguzzi». Del resto «i lupi sono animali culturali», che non hanno mai smesso di alimentare il nostro immaginario: ci affascinano per la loro bellezza, intelligenza e socialità e, al contempo, ci inquietano perché elusivi «professionisti degli interspazi», perché si organizzano in branchi «senza-Stato», perché abili a «travalicare» i nostri confini e infine, perché ci tengono nel ruolo «di pietanza semovente da mangiare». I lupi hanno cioè tutte le caratteristiche degli animali demoniaci di Deleuze e in più, con accenti derridiani, «ci mettono a nudo e questo non ci piace».
In breve, «il lupo è una questione politica» ieri come oggi. Ieri quando, licantropo, è diventato emblema del fuori-legge colpito dal bando sovrano (Agamben) o è stato utilizzato per giustificare la nostra struttura sociale (Hobbes). Oggi – Giunti lo ribadisce più volte –, più miserevolmente, quando i corpi dei lupi vengono trasformati in campi di battaglia su cui inscrivere manovre politiche in cui si mescolano meschinità e incompetenza.
I lupi, non dimentichiamolo, hanno attraversato anche il territorio della psicoanalisi. Il lupo che ritorna assume così le vesti del rimosso che «ci impone con prepotenza di ripensare il nostro rapporto con la natura»: non siamo i pastori dell’Essere, bensì «diversi tra uguali». Ecco perché stona l’incrostazione antropocentrica di questo libro, incrostazione che raggiunge il suo acme nella descrizione di una pastorizia edulcorata e nell’incapacità di pensare che verosimilmente le pecore non amino essere allevate e trasformate in carne almeno tanto quanto non amino essere predate dai lupi.
Che sia per questo che l’uomo dei lupi (e di Freud) sognava questi animali con il manto bianco? O che l’idealizzato pastore di Giunti, in un momento di eloquente consapevolezza, esclami: «Spesso ci sentiamo trattati come bestie»?