I “meccanoscritti”, così nel 1963 gli operai si raccontavano – Giuseppe Lupo da Avvenire
Tutto ha inizio sull’Unità del 20 ottobre 1963, giorno in cui compare l’annuncio di uno strano concorso letterario, indetto dalla Fiom di Milano, a cui si chiede di partecipare con racconti ispirati alle lotte sindacali. La giuria è composta da nomi di primo piano nel panorama letterario del tempo – Arpino, Bianciardi, Eco, Fortini e Spinella -, ciascuno dei quali legato in un modo o nell’altro ai fenomeni del lavoro industriale e protagonista del dibattito sul moderno. In palio ci sono centomila lire, che corrispondono a qualcosa in più rispetto allo stipendio mensile di un operaio specializzato.
I racconti arrivano numerosi, la maggior parte operai che desiderano narrare se stessi, ma restano inediti fino a quando, un paio di anni fa, Ivan Brentani li scopre nell’Archivio del Lavoro di Sesto San Giovanni e decide di darli alle stampe con un titolo originale, Meccanoscritto (Alegre, pagine 349, euro 15,00), neologismo che mette insieme due elementi fondativi: il provenire da ambienti metalmeccanici e l’essere una sorta di lavoro a più mani, com’è appunto la catena di montaggio.
Diviso da questa specie di dualismo, il libro vive di una vocazione tutta particolare, in cui il desiderio di riparare a un torto del destino (quello di essere rimasto al chiuso di un archivio per oltre cinquant’anni) fa da supporto a un progetto narrativo dal forte impianto sperimentale. Chi legge, infatti, non si trova soltanto di fronte alla raccolta dei testi che risalgono ai primi anni Sessanta, ma intercetta anche le scritture datate 2015, che portano la firma di un collettivo, denominato MetalMente e animato dallo stesso Brentani, da Wu Ming e da un gruppo di aspiranti scrittoli, anch’essi operai iscritti alla Fiom, oggi come ieri, chiamati a esprimersi sul mondo della fabbrica in un momento terribilmente diverso rispetto a quello di mezzo secolo fa.
Ne viene fuori qualcosa che potrebbe somigliare a un’antologia di fiabe operaie o a un romanzo storico ipercollettivo, un discorso a più voci, dove non è tanto importante la resa narrativa, spesso soggetta a quel desiderio di denuncia che avrebbe fatto pronunciare a Vittorini la formula di «scrittura sui muri» (in alcuni momenti sembra di leggere Tempi stretti di Ottieri), piuttosto l’idea di una scrittura comunitaria come di una collettività restituita a se stessa, compatta contro l’individualismo che sembra avere indebolito l’immagine del sindacato e, soprattutto, contro l’etica di un capitalismo che mostra il suo volto selvaggio proprio quando, come nei tempi recenti, avverte il rischio di sconfitta e o di smarrimento.
Inutile affermare che le questioni di oggi sono legate a filo stretto con quelle di ieri. Meglio soffermarsi sul tema che attraversa da cima a fondo Meccanoscritto e che conduce a domandarsi su quali siano i compiti richiesti a chi scrive, se cioè una pagina debba rispondere fedelmente a ciò di cui si dichiara documento oppure elevarsi a trasfigurazione di un tutto. L’argomento è decisivo per le sorti di qualsiasi letteratura: quando si parla di fabbrica bisogna testimoniare o inventare? La domanda resterebbe senza risposta se il libro non fosse impreziosito dal racconto di un episodio che riguarda Bianciardi. Mentre si trova in piazza Duomo, l’autore della Vita agra viene avvicinato dal segretario della Fiom, che gli chiede di scrivere un romanzo sullo sciopero. La risposta di Bianciardi va in una direzione precisa: «Ho scritto sui minatori perché li conosco fin da bambino. Il libro sugli operai deve farlo uno di voi». La verità sta in ciò che si conosce, nella vita.