In viaggio a passo d’uomo. Andrea Bajani da “Il sole 24 ore”
Andrea Bajani da “Il sole 24 ore” del 02/02/2014
I tempi corrono e l’uomo, per come può, mantiene il suo passo. Angelo Ferracuti intitola I tempi che corrono un libro che ha l’andatura di un uomo che passa in mezzo all’infuriare di questi anni ma non rinuncia a guardarlo negli occhi. Conclusione di una ideale trilogia sul lavoro cominciata con Risorse umane (2008) e proseguita poi, l’anno scorso, con quel libro necessario – per la letteratura civile e non solo – che era Il costo della vita, questo volume raccoglie otto anni di attraversamenti di un paese malconcio.
Il referto è quello di un’Italia che fa della fretta un’ideologia, che lascia sul campo vittime collaterali di una guerra troppo impari per non essere soltanto una sopraffazione: lavoratori lasciati a casa per imperscrutabili messianiche mission aziendali (“Gianni Simone ci ha lavorato tredici anni alla Micron, ma adesso non vuole scendere dall’automobile, gli fa persino rabbia vedere lo stabilimento”) o per una lettera (“una lettera, in un’epoca – scherzo della sorte – dove non se ne scrivono più, appesa sulla bacheca aziendale, gli è costata il licenziamento in tronco”), o schiacciati sotto il giogo del caporalato nelle campagne pugliesi. A tutto questo Angelo Ferracuti oppone, in una forma di resistenza civica non violenta, l’ottusità del passo d’uomo.
Di fronte al fatalismo di un’accelerazione sbandierata sotto nasi di uomini e donne sfiniti, la postura dello scrittore fermano è quella di chi invece continua a misurare lo spazio attraversandolo a piedi. Per questo è uno scrittore speciale: non usa il doping dell’indignazione ma l’evidenza della fragilità che l’uomo rivela di fronte a un tempo che si fregia di non aspettare nessuno. La sua è una scrittura sempre piana, si accosta al dolore degli altri con garbo, si guarda bene dall’usarlo come palla da cannone. Lo ascolta, piuttosto, e poi lo mette in comune con il lettore, con l’empatia di chi se ne fa carico e con la dignità come primo antidoto contro la malafede.
Nelle campagne foggiane, all’Isochimica di Avellino, lungo la Salerno-Reggio Calabria, Ferracuti si espone con lo sguardo di chi, con la forza della semplicità, riconta i passi che separano un paese civile da uno stato nazionale entro i cui confini infuria una guerra civile. E i passi sono sempre troppi perché il conto che non torna non faccia male anche – e soprattutto – a chi legge. Non rinunciare a quel passo come forma di responsabilità, rivendicare l’ingenuità della domanda, l’aderenza a una misura prima di tutto umana. Non ci sono domande più pressanti delle domande ingenue, diceva Wislawa Szymborska.
Questo libro è un esempio di come (anche) alla letteratura spetti di farle, quelle domande. Non è un caso che tra le pagine di I tempi che corrono ci siano tanti scrittori, da Fenoglio a Di Ruscio, da Volponi a Pasolini. Non è un caso che siano stati loro a fare le domande più ingenue, e dunque più pressanti, al nostro tempo. E non è un caso che il loro vuoto stia lì, come una forma di pungente, ma esemplare, nostalgia: “Cosa avrebbe pensato Pasolini di questa Italia? Cosa direbbe del popolo immigrato e disperato, della guerra in Iraq’ Non debbo farmi più queste domande, inutile. Anzi debbo farmele più spesso. Promesso”.