In viaggio con Ferracuti tra i silenzi di Trieste nell’Italia che non molla. Roberto Carnero da “Il Piccolo”
Sui treni, in corriera o a piedi, in un impegno non comune per un racconto “dal vero”. Nel suo nuovo libro, “I tempi che corrono” (Alegre, pagg. 224, euro 15), Angelo Ferracuti propone al lettore un viaggio attraverso l’Italia. Lo scrittore marchigiano ha raccolto in questo volume i reportage degli ultimi dieci anni. C’è tutto il suo mondo di narratore, le cose che lo interessano da sempre: la società italiana, a partire dal lavoro che cambia nelle diverse geografie, le nuove forme di sfruttamento, i luoghi e gli scrittori amati, come Brecht, Pasolini, Fenoglio, Di Ruscio, pezzi di autobiografia. C’è la sua anima di reporter civile, quella del flaneur, del documentarista in viaggio, persino un po’ del narratore tout court. Con “I tempi che corrono”, Ferracuti si riallaccia a un altro suo libro recente, pubblicato da Einaudi, “Il costo della vita”. Con questa nuova opera, così, si chiude il cerchio: in sintesi è il suo punto di vista, non certo benevolo, sull’Italia contemporanea, un racconto scritto con disincanto ma anche con molta nostalgia.
Due capitoli ci riportano al Friuli Venezia Giulia e al Nord Est. «Amo da sempre queste terre – confida Ferracuti -, in particolare Trieste, città letterariocentrica per eccellenza, dove andavo spesso già da ragazzo, e questo è un reportage che feci utilizzando diversi mezzi di trasporto: il traghetto, la corriera e, per finire, spostandomi con il corpo, cioè camminando. Alla fine diventano tutti strumenti dello sguardo, della scrittura, ad altezze e velocità diverse». «Ero partito da Grado in nave – spiega -, arrivando lentamente a Trieste. È un incanto vedersela apparire all’improvviso, poi sempre più vicina. Da lì avevo proseguito a piedi verso il castello di Miramare, poi in corriera a Duino sui luoghi di Rilke, facendo ritorno da dove ero partito. Sono posti di grande incanto e di notevole fascino». C’è anche spazio per il racconto dell’incontro con il puglie monfalconese Stefano Zoff: «Ero stato invitato a Monfalcone dallo scrittore Mauro Covacich ad una iniziativa che si chiamava “Rabdomanti”, dove bisognava scrivere un reportage narrativo in quel territorio. Ricordo che Massimo Carlotto lavorò a un testo sui morti per amianto alla Fincantieri, cosa che anch’io raccontai qualche tempo dopo, mentre Lorenzo Pavolini si concentrò su un velista. Io, invece, scelsi Stefano Zoff, un pugile, un combattente della vita e del ring, perché amo questo sport storicamente legato alla lotta di classe, ma anche alla letteratura americana, però lo contestualizzai nel suo paesaggio, nella storia e nei tanti combattimenti che ci sono stati in questa terra».
Ma quale idea si è fatta Ferracuti del Nordest con questo suo viaggio? «Sono da sempre attratto da alcune zone di confine, dove non ti senti in Italia e sembra di essere all’estero. Il Carso, per esempio, oppure luoghi magici come Aquileia e Grado, e, come dicevo, Trieste, naturalmente, dove sono stato tante volte. Mi sembra una parte del Paese meno bruttata dalle merci e da uno sviluppo dissennato, dove c’è ancora un po’ silenzio e raccoglimento. Anche la gente mi piace, per i modi semplici, la natura riservata. Ma quello che amo di più è proprio il paesaggio. Però è stato anche lo scenario, in negativo, di uno dei miei reportage più difficili, quando sono andato a raccontare la storia allucinante dei morti di amianto ai cantieri di Monfalcone, che mi ricordò La peste di Camus. I luoghi sono sempre molto complessi, frutto di sedimentati storici secolari, si può coglierne solo piccole porzioni di senso e di realtà». Del Nordest si parla spesso come del luogo di una sorta di miracolo economico degli ultimi decenni, ma anche come di una parte di Italia che ha un po’ smarrito la propria identità culturale e i propri valori. E ora come di una delle regioni più colpite dalla crisi. «La crisi si sta facendo sentire in maniera molto forte. Essa colpisce di più dove l’imprenditoria è spontanea, con una scarsa cultura, incapace di fare innovazione e programmare i vari settori produttivi insieme alle altre forze sociali, dove non c’è una visione d’insieme, un progetto condiviso. Una crisi anche di valori, certo, se la politica è in mano a un partito anacronistico come la Lega. Ma sono analisi complesse che non può certo fare uno scrittore».
In generale, Nordest a parte, dal libro di Ferracuti esce un’idea dell’Italia come di un Paese ormai vittima dei propri vizi, ingigantiti da vent’anni di berlusconismo, cioè un neoliberismo spinto, senza freni e senza limiti, che diventa un indecente spettacolo pornografico: «Un Paese corrotto fin nelle fondamenta, consociativo, con una opposizione politica inconsistente. Un Paese con la classe imprenditoriale peggiore d’Europa, la meno intelligente e democratica, la più assistita. Ma racconto anche l’Italia che resiste, minoritaria e autenticamente progressista, pacifista, del volontariato internazionale, e che scrive, filma, tenta come me di creare un immaginario diverso. Temo però che sia ancora vincente quell’altra Italia, quella trucida, cialtrona e qualunquista dei “forconi”, il lascito di questa miscela di liberismo e populismo che la destra italiana ha seminato lungo un ventennio».
Nella quarta di copertina l’autore cita Pasolini, al quale dedica un capitolo del libro. Che cosa avrebbe detto questo grande poeta e intellettuale dell’Italia di oggi? «Quello che Pasolini ha detto dell’Italia di ieri, quella che si affacciava sulla società dello spettacolo e del consumismo di massa, mi sembra attualissimo anche oggi, soprattutto quando affermava che il fascismo, in fondo, non è stato capace di scalfire l’anima degli italiani, come, invece, ha fatto la televisione: oggi avrebbe detto la comunicazione, le tecnologie, che sono sempre mezzi fortemente autoritari. Da vero ‘corsaro’ aveva ingaggiato un corpo a corpo contro i poteri forti. Se si pensa al suo romanzo incompiuto Petrolio, lì c’è tutto il condensato dell’anomalia italiana: la politica corrotta, la P2, il fascismo di Stato. Pasolini ha pagato queste denunce con la morte. Lui, insieme a Paolo Volponi, Fortini e pochi altri, è il prototipo di un intellettuale legato alla letteratura come impegno civile: quello che manca più di ogni altra cosa oggi in Italia».