Intervista a Narducci sul venerdì di Repubblica
NON NASCONDIAMO LE VERGOGNE SOTTO UN PRATO VERDE D’ERBA
Intervista a Giuseppe Narducci
di Dario Del Porto
«Diceva Edoardo Galeano che il calcio è patria, popolo, potere. Ebbene, Calciopoli è stata la rappresentazione moderna di quello che scriveva il grande autore uruguaiano: questo sport arriva dove molto spesso neppure la politica e l’economia, da sole, riescono. Ma il tifoso guarda con occhi appassionati, dunque miopi, e questo contribuisce a rendere lontane e sfocate le immagini delle ignominie che pure si consumano nel nome del pallone». L’ultima udienza del processo di Napoli si è conclusa da qualche ora. Giuseppe Narducci, il pm che ha condotto l’inchiesta sullo scandalo più grave della storia del calcio italiano, sta per andare a Roma, dove lo aspetta una delicata riunione di lavoro. Sulla scrivania, in mezzo ai fascicoli, un libro dell’avvocato e giornalista argentino Pablo Llonto. È intitolato I Mondiali della vergogna e racconta il campionato del mondo disputato nel 1978 nell’Argentina dove imperversava la dittatura militare. A questa storia Giuseppe Narducci si è dedicato con l’ostinazione tipica del pubblico ministero. Si è procurato in Argentina una copia del libro. L’ha fatto tradurre in italiano e ha curato la prefazione all’edizione pubblicata da Alegre che uscirà il 27 maggio. E, attraverso la rilettura di quell’evento dimenticato troppo in fretta, analizza fatti vecchi e nuovi dell’inchiesta di calciopoli mentre un altro mondiale si avvicina.
Cosa c’entra quel torneo di 32 anni fa con il terremoto che tuttora agita il pallone di casa nostra?
«A prima vista nulla, naturalmente. Ma il calcio professionistico non è solo il tassello di un grande meccanismo finanziario, bensì l’espressione più visibile del potere. Era così nel 1978, in Argentina, dove il generale Videla sfruttò al massimo quella occasione, come Llonto racconta nel suo straordinario libro. Mentre la squadra di Kempes e Passarella giocava, tanti ragazzi sparivano e venivano torturati. Persino un dittatore come il cileno Augusto Pinochet, che aveva potere di vita e di morte su un’intera nazione, volle farsi presidente di una squadra di calcio, il Colo Colo. Ancora oggi, in Italia come in tutto il mondo, il potere di attrazione del calcio è superiore a qualsiasi altra cosa. C’è una corsa spasmodica a farsi accreditare per salire su questa giostra. È quello che vediamo ogni settimana in televisione, sulle tribune degli stadi e nei bar. Eppure tutti dovrebbero desiderare un calcio veramente pulito.
Calciopoli dunque non ha cambiato nulla?
«L’indagine, al di là di quelle che saranno le valutazioni dei giudici, ha prodotto degli effetti positivi. Non penso proprio che oggi si ripetano i comportamenti evidenziati dall’inchiesta. Ma non si può dire che il calcio, in questi quattro anni, sia diventata un’altra cosa rispetto ad allora. Questo non è vero».
Non sarà perché, come viene sostenuto oggi dai difensori di alcuni dei principali imputati del processo, l’inchiesta ha colpito solo Luciano Moggi e la Juventus?
«È un’obiezione che ho già sentito, ma che non posso accettare. L’indagine è stata condotta con scrupolo, obiettività, senza trascurare alcunché e rispettando le garanzie della difesa. Ora si sta celebrando il processo ed è giusto lasciare al Tribunale il compito di pronunciarsi sulle posizioni dei singoli imputati. Un punto fermo però c’è già: la sentenza del rito abbreviato che riconosce l’ipotesi di associazione per delinquere».
Intanto sulla base delle intercettazioni segnalate dalla difesa, la Juventus ha chiesto la revoca dello scudetto 2006 assegnato a tavolino all’Inter.
«Questo è un argomento che non può interessarmi. Sono dinamiche di giustizia sportiva, il processo penale prende in esame altri profili».
Qual è la malattia del calcio italiano secondo lei?
«Il difetto principale è l’ipocrisia. Si ascoltano quasi esclusivamente banalità anche quando si affrontano argomenti importanti. La realtà viene costantemente nascosta e sono pochi quelli che hanno il coraggio di chiamare le cose con il loro vero nome. Chi trova questa forza, viene letteralmente espulso dall’ambiente».
Ad esempio?
«Penso a Carlo Petrini. Uno che ha giocato in serie A e si è macchiato, naturalmente da solo, di gravi nefandezze che hanno lasciato il segno anche nel suo fisico. Poi però ha scelto di raccontarle. Ed è stato messo all’indice ormai da anni. Ma accade lo stesso altrove. In Argentina si parla il meno possibile dei fatti che segnarono i Mondiali del ’78 e pochi hanno voglia di ricordare la vittoria per 6-0 contro il Perù che spianò alla squadra di casa la strada verso la finale e fu certamente oggetto do una combine. Prima di partire per quella spedizione nessun atleta, salvo pochissime eccezioni, trovò anche una sola parola per dissociarsi da una manifestazione che si svolgeva in una terra oppressa dal regime».
Un magistrato che da quattro anni si occupa del sospetto di partite truccate, arbitraggi pilotati e ammonizioni mirate con quale spirito si prepara a questo mondiale sudafricano?
«Da un po’ di tempo a questa parte osservo il calcio con disincanto. Sarà così anche per i Mondiali. Guarderò le partite, come ho sempre fatto. E seguirò con simpatia proprio l’Argentina».
A sentire le sue parole sembra che ci sia molto poco da salvare, nel calcio attuale.
«Non è così. Sicuramente il calcio recupera la sua dimensione di veicolo per la liberazione dei popoli solo quando è lontano dai riflettori: come nei tornei dei “semterra” brasiliani dove le partite assumono un significato che è vicino all’essenza di questo sport. Ciò nonostante, anche dopo Calciopoli, rimango convinto che in questo sport esistano tante forze sano anche a livello professionistico: tra i dirigenti, gli atleti, i giornalisti, gli appassionati. Solo che sono ancora troppo isolate».
Dunque sognare un calcio pulito è ancora possibile?
«Questo sport era e resta prevalentemente maschile. Però mi vengono in mente le Madri Argentine. Quelle donne che durante quel Mondiale del 1978 applicarono l’unico atto di disobbedienza possibile: tifare contro la squadra del loro Paese mentre i loro uomini si lasciavano avvolgere dall’ubriacatura del torneo sportivo per non pensare alle violenze del regime. Ecco, forse il calcio può essere cambiato in un solo modo: accogliendo al suo interno, finalmente, anche il punto di vista delle donne».
Guarda il libro “I Mondiali della vergogna”