Intervista a Nexus: tra le strade dell’Hip Hop – “La casa del rap”
Dopo aver letto l’interessante, ricco e girovago libro Stradario Hip-Hop scritto da Nexus ed edito da Alegre, ho avuto la possibilità di fare quattro chiacchere con l’autore per approfondire aspetti che avevano attirato la mia attenzione, e magari anche la vostra. Ecco quanto è emerso dalla nostra intervista!

Magari non tutti ti conoscono: chi è Nexus?
Regista, performer, insegnante, attivista, ricercatore… ma prima di tutto: un b-boy.
In Stradario Hip-Hop racconti –facendo fare a chi legge dei giri (mica da poco) in tanti, diversi, ricchi e particolari boulevard – le ragioni, chiamiamole così, che ti hanno portato in circa quattordici anni a scrivere questo libro. Puoi sintetizzarle qui, per i nostri lettori?
Perché vedevo nell’hip-hop qualcosa di grandioso, che aveva cambiato me e il mondo, ma che era tenuto ostaggio di numerose “narrazioni tossiche”. Arte, cultura, movimento: cos’era l’hip-hop? E soprattutto, come si raccontava? Da quando ho assaggiato l’asfalto del Bronx con la schiena nuda, ho sentito l’urgenza di raccontare la scena, ovvero la comunità internazionale di persone che vive lo stile di vita hip-hop praticando le così dette quattro discipline. L’urgenza si è trasformata in bisogno, il bisogno in ossessione («Devo raccontare il vero hip-hop, tutto l’hip-hop!») e l’ossessione mi ha portato in un labirinto fatto di pionieri, maestri jedi, mutaforme, sucker e un mostro finale (ovvero la scrittura stessa del libro): ho sconfitto il mostro, sgraffignato dei tesori e risolto i miei grattacapi sull’hip-hop raccontando al lettore, sotto forma di romanzo, la storia di questa «lunga guerra» nel labirinto del Minotauro.
Con quali aggettivi descriveresti l’Hip Hop in Italia? Perché?
Descriverlo equivale a giudicarlo: un errore che ho accuratamente aggirato pubblicando uno “stradario”, anziché una “Storia”. Dell’hip-hop italiano, mi limiterei a elencare i luoghi d’interesse storico. Innanzitutto i favolosi reami delle quattro discipline, dove a farla da padrone c’è… “la casa del rap”, la comunità più potente in termini numerici e di potenza narrativa (la storia dell’hip-hop è dominio dei master of cerimony, che l’hanno assimilata a quella del rap, mentre nel libro traccio sentieri alternativi alla prospettiva rap-centrica); poi ci sono roccaforti culturali, città come Roma, Bologna, Napoli, Milano, Torino, Cagliari ecc. attraversate dalla comunità doppia H italiana e internazionale e ricche di storie da disseppellire (una è quella dell’Isola Nel Kantiere…); esiste poi un grande fiume (il mainstream) e un ruscello sotterraneo (l’underground): facile tuffarsi in uno, difficile surfare fra i due. Ci sono grandi statue degli eroi (caduti e non) che attenuano la nostra innata esterofilia, ma che possono tramutarsi in idoli da adorare in ricordo dei “bei tempi andati”. Esiste infine un “lago dell’indifferenza”, dove nuotano i disillusi da questa cultura che, sebbene giovanile, ha ormai quasi cinquant’anni.
All’inizio del libro ti rivolgi direttamente alle persone che si sono dis-innamorate di questa subcultura globale che è l’Hip Hop. Potresti cercare d’individuare i motivi, non per forza personali, di questo allontanamento? Che cosa è venuto a mancare, oppure che cos’è cambiato?
Ci siamo passati tutti, ma in pochi lo raccontano: che succede quando passa la così detta fotta? Cosa si prova a ritrovarsi in un cerchio di bambinetti «con gli zainoni e i pantaloni bragaloni» – come li chiama Danno nel nostro dialogo – e scoprire che a New York trovi le stesse situazioni “scrause” che in Italia? L’hip-hop è stato raccontato col carattere del mito, e quando si cresce, i miti vengono sottoposti a revisione, collassano, si mischiano e riemergono in molteplici versioni e prospettive. Con lucido affetto, il libro non tenta di celebrare il fasto della Golden Age (un’epoca mitica creata retroattivamente nei Duemila per gestire il rinculo della diaspora delle discipline), ma lava i panni sporchi dentro/contro la scena, giungendo a una conclusione molto franca: l’hip-hop può essere un prezioso filo di Arianna, ma non ti salva la vita. L’hip-hop, come la realtà, nasconde al suo interno un elemento nocivo attorno al quale si erigono le sue foundation: il tribalismo e il gangsterismo di molte crew è eredità del format delle bande di strada; il sessismo e il maschilismo è un elemento che attiviste come Angela Davis o Elanie Brown hanno esplicitamente criticato in organizzazioni come i Black Panther; la tanto criticata “commercializzazione” della doppia H è una dimensione originaria e endemica a questa cultura che – non mi stancherò mai di dirlo – nasce da una festa a pagamento organizzata da una ragazzina del Bronx (Cindy Campbell) che voleva comprarsi dei vestiti nuovi in vista del ritorno a scuola. Ma è proprio perché l’hip-hop ha fin da subito avuto le “mani sporche” che oggi – a differenza di altre sottoculture più straight edge – è ancora un fenomeno diffuso e con un potenziale artistico, sociale, educativo (e filosofico) esplosivo.

Sono rimasta colpita molto quando in Stradario racconti che spesso «i graffiti rappresentano il male». In che modo è stata creata l’associazione graffiti/toxicscape, magari ci sono delle rappresentazioni filmiche che hanno portato a questo? Oppure che cos’altro?
Quando in un film appare un “graffito”, 99 volte su 100, si tratta di una scena di crimine, violenza, degrado o follia psicotica. Il caso per antonomasia è la famosa scena dell’irruzione di Joker alla galleria d’arte in Batman di Tim Burton, ma c’è un intero capitolo – pardòn, boulevard! – del libro dedicato allo studio di questo fenomeno che dagli anni ’70 ha contribuito a rafforzare il legame fra politiche di ordine & disciplina, degrado urbano e hip-hop (in tutte le sue forme). Nello Stradario li chiamo “paesaggi tossici” (toxicscape) perché hanno educato lo spettatore medio a vedere nei graffiti il simbolo del vandalismo (a destra) o del disagio giovanile (a sinistra). Entrambe le letture sono superate e – come disse Jean Baudrillard – segnano l’anestetizzazione del potenziale sovversivo del writing: esportare il ghetto in tutte le arterie della città bianca rivelando che questa è il vero ghetto occidentale, «una specie di sommossa dei segni». Oggi, in piena street art invasion, rivalutare il ruolo del writing e depotenziare la kalistenics dell’arte pubblica (avviluppata in pericolose dinamiche di gentrificazione) è una strada da battere (e taggare!) il più possibile, senza osannare o demonizzare i singoli writer-artisti ma avviando collaborazioni virtuose dal basso e con i territori.
Verso la fine del libro parli di usi educativi delle varie discipline Hip Hop. È un capitolo molto interessante, coinvolgente e appassionato. Che cosa manca a quella che è definita “pedagogia Hip Hop” in Italia? C’è il rischio che sia banalizzata, o che non influisca in modo significativo, oppure che sia investita di un “potere salvifico”? Secondo te perché…
Riformulando il precedente aforisma: l’hip-hop, come l’educazione, non ti salva la vita. Educare significa “condurre verso” (ē – dūcĕre), ma questa conduzione non è mai individuale, è collettiva. Félix Guattari – con i suoi pazienti di La Borde – parlava di “ecosofia”: educare o ri-educare alla società significa creare un’ecologia in cui educandi, educatori e attori del territorio concorrono a creare un circolo virtuoso attorno al soggetto. Pedagogia hip-hop di Davide Fant è stato un buon punto di partenza, ma occorre sviluppare il potenziale educativo di tutte le discipline facendo esperienza sul campo, ampliando le competenze e munirsi di tanta, tanta pazienza. «Stiamo piantando i semi di un albero di cui non godremo l’ombra», diceva il nostro supervisore psicologico. Noi l’abbiamo fatto col breaking, arrivando a formulare una vera e propria “pedagogia del cypher”, dove il cerchio diventa il dispositivo educativo attorno al quale strutturare attività di gioco, sfida, sperimentazione e collaborazione creativa fra bambini e bambine delle periferie romane. Il ruolo dell’educatore hip-hop, oggi, è un orizzonte umano e professionale poco esplorato ma assai all’avanguardia. Mc, breaker, writer e DJ: fateci un pensiero!

Il mio capitolo preferito è stato Gender Is Breaking. Mi racconti qualcosa di più sulla Ball Culture? Mi ha molto colpita…
Non mi definisco un esperto, né vorrei passare per l’autore de La ball spiegata agli hip-hoppari (parafrasando Wallace). In Stradario uso la cultura ball (nata semi-clandestinamente in seno alla comunità drag e gay afro e latinoamericana) come liquido di contrasto per suggerire nuove prospettive sulla storia dell’hip-hop. Scopriamo infatti che uno dei protagonisti del film culto Breakin’ del 1984, frequentava i gay club di Los Angeles per sperimentare nuovi passi e nuovi look; che pionieri dell’hip-hop come Afrika Bambaataa o Grandmaster Flash prendevano spunto da estetiche e sonorità comuni ai vogue performer e che per vincere un battle ci si può ispirare a Madonna o Naomi Campbell, e non solo a Muhammad Ali e Bruce Lee.
(Se siete curiosi sull’argomento, vi consigliamo la visione della serie Netflix Pose, ndr)
Ho trovato davvero interessanti le parti in cui parli della tua opera Le figlie di Silah. Lo leggeremo mai?
Nel pieno di queste history wars, mi sono detto: per proporre una lettura davvero radicale della storia hip-hop… dovevo reinventarla di sana pianta. E se al posto di Kool Herc & soci, l’hip-hop l’avessero inventato un gruppo di streghe-danzanti con poteri psionici? L’intento, volutamente provocatorio e ispirato alle saghe what if e ultimate di casa Marvel (dove le origini di un supereroe vengono ludicamente riscritte per vedere “come sarebbe potuta andare”), rischiava di concretizzarsi in un romanzo neo-noir dal titolo Le figlie di silah. Mumbo Jumbo di Ishmael Reed, New Thing di Wu Ming 1 (ma anche Numero 47 di Artificial Kid!) erano i miei punti di riferimento perché riuscivano a bilanciare la ricerca storica con la dimensione sci-fi e thriller. È stato lo stesso Wu Ming 1 (direttore della collana Quinto Tipo di Alegre per la quale è uscito Stradario hip-hop) a farmi desistere: «Il noir è una “allungatoia”, una sorta di circonlocuzione fin troppo praticata negli ultimi anni», mi scrisse nel 2016, «È come mettere una rotonda al posto di un incrocio. La cultura di strada vive all’incrocio, pulsa col ritmo del semaforo». Dalla rinuncia per Le Figlie di silah, è nata l’idea di scrivere uno stradario: uno stradario hip-hop. Ma chissà, se il soggetto continua a insistere (non sei la prima che chiede notizie delle silah), prima o poi non potrà che esistere.
Quali progetti all’orizzonte, o meglio, verso quali strade ti stai dirigendo, adesso?
Lo Stradario non può che restare on-the-road. Dopo l’uscita in libreria penalizzata dall’emergenza Covid-19 (raccontata nell’ultimo, fondamentale, capitolo del libro), ho rimesso lo zaino in spalla e sto presentando il libro in giro per l’Italia con annesso reading musicale (feat. Ice One!). Ma sarebbe bello costruire jam, workshop e tavole rotonde hip-hop perché di carne al fuoco ce n’è tanta. Dall’ibridazione ai libri d’azione, come nello spirito della collana Quinto Tipo. Sul versante della ricerca sto lavorando per l’Università di Roma Tre per un grande progetto sulla presenza italiana nell’America del dopoguerra e fra i casi di studio potrebbe rientrare anche il rapporto fra moda italiana e cultura hip-hop, ma in generale mi piacerebbe portare gli hip-hop studies dall’accademia alle strade e viceversa (a novembre riprenderò i corsi in storia e filosofia hip-hop con i danzatori e le danzatrici dell’Urban Dance Academy di Roma). Last but not least, per non farci mancare nulla, fra i vari progetti di intersezione fra teatro, danza e arti digitali di cui mi occupo con la mia compagnia Garofoli/Nexus, sto progettando… la mia transizione a cyborg (!). Non è fantascienza (il termine giusto è “biohacking”), né il secondo album di Artificial Kid: l’idea è di creare una performance “sensorialmente aumentata” che sfrutti la tecnologia e il mio background da b-boy… staremo a vedere!