Intervista ad Achcar su il manifesto
UNA VITA ALTROVE. RITRATTO DI UN MARXISTA LIBANESE
di Geraldina Colotti
Gilbert Achcar, 54 anni, professore di scienze politiche presso l’Università di Parigi-VIII, è analista di politica estera americana e del mondo arabo, collaboratore di «Le Monde diplomatique» e di «Inprecor» (www.inprecor.org). Fa parte del centro Marc Bloch di Berlino. Nato in Senegal da genitori libanesi, fa parte di quella generazione che ha abbracciato idee marxiste radicali alla fine degli anni sessanta, e per cui per cui «il ’68 è cominciato un anno prima, con la guerra». Ha lasciato il Libano per la Francia nell’83, l’anno dopo l’invasione israeliana e l’assedio di Beirut ovest, dove viveva e militava nella sinistra radicale. Da allora, pur rimanendo legato a un quadro d’analisi marxista, nei suoi numerosi libri, ha espresso l’esigenza di «ripensare per intero il marxismo del XX secolo alla luce dell’immenso disastro dell’Urss». Il suo libro «Scontro tra barbarie, terrorismi e disordine mondiale» (edizioni Alegre, traduzione di Cinzia Nachira), scritto a caldo dopo i fatti dell’11 settembre e pubblicato di gran corsa in Francia è stato da allora tradotto in 12 lingue, ma ignorato dai media. Un libro che, in prospettiva storica e senza facili ottimismi verso il futuro, analizza le forme di «ostilità assoluta» dopo la caduta dell’Unione sovietica. Con taglio marxista e rivisitando il concetto di anomia (inteso come caos e disgregazione delle norme sociali), adottato da Emile Durkeim per spiegare i suicidi, Achcar esamina l’avanzata dell’integralismo islamico, rifuggendo le spiegazioni a senso unico. E per questo l’analisi del terrorismo come barbarie asimmetrica non risulta datata, ma offre anzi più di un elemento per comprendere il dispiegarsi, dopo l’11 settembre, della «barbarie dei potenti»: da Guantanamo ad Abu Ghraib, passando per gli Hotel California, i luoghi di tortura nascosti in cui ha mano libera la Cia.
Il nuovo Medio-oriente. Parla Gilbert Achcar
Di Geraldina Colotti
A Gaza e Beirut, barbarie asimmetrica. La crisi libanese e il risentimento delle masse arabe di fronte al «nuovo ordine» imposto nella regione da Usa e Israele. Dall’Iraq alla Palestina – sostiene l’analisti politico libanese Achcar – è la stessa tragedia: l’assenza di un’alternativa di sinistra, radicale e credibile agli occhi delle popolazioni.
Gilbert Achcar è collaboratore di Le Monde diplomatique, e autore di Scontro fra barbarie, un affilato pamphlet che mette al centro dell’analisi la situazione politica del suo paese e l’avanzata del fondamentalismo islamico. Lo incontriamo a Roma, al termine di un ciclo di conferenze legate al suo libro.
Professor Achcar, secondo i media nordamericani è stata la violenza diHezbollah – al centro di un piano di destabilizzazione islamico della regione – a provocare la risposta israeliana. È d’accordo?
L’operazione militare di Hezbollah, come ha dichiarato lo stesso Nasrallah, era stata preparata da tempo e concertata con gli alleati, ma anche l’offensiva militare israeliana – come ha rivelato la stampa ebraica – è stata pianificata molto tempo prima. Mirava a distruggere le infrastrutture del Libano, e cioè imezzi di sussistenza della popolazione. Mirava ad applicare con la forza la risoluzione 1559 fatta approvare dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 2004: ritiro delle truppe siriane dal Libano, disarmo dei gruppi armati nel paese, e cioèdiHezbollah e dei palestinesi rifugiati nei campi profughi. Quando Israele dichiara di esigere l’applicazione integrale della risoluzione 1559, mostra una sfacciataggine inaudita: da quasi quarant’anni, infatti, si attende ancora che Israele applichi la risoluzione 242, che esige il suo ritiro entro le frontiere precedenti la guerra del giugno 1967. Stati uniti e Israele sono mossi dall’ossessione del nemico principale. Prima era l’Unione sovietica, oggi – in Medio Oriente – è l’Iran e l’alleanza, su forti basi regionali, che la sostiene: dagli sciiti in Iraq, al regime siriano (il nemico secondario, nonché il male minore per Israele, che altrimenti avrebbe il caos alle frontiere), a Hezbollah (legata all’ideologia iraniana), e ad Hamas (un’organizzazione sunnita), che serve all’Iran per schierare contro gli Usa e Israele un intero fronte islamico e non solo un’alleanza sciita. Per mettere l’opinione pubblica controHamase Hezbollah, i regimipiù asserviti agli americani come quello saudita, giordano o egiziano, cercano infatti di giocare la carta del confessionalismo. Pigiando sul tasto dell’antagonismo sciita-sunnita, sostengono che l’Iran vorrebbe coinvolgere gli arabi in una guerra che non li riguarda. Oggi, però, gli eroi di un’opinione pubblica disgustata dall’inconcludenza dei paesi arabi sono Hamas eHezbollah. Nasrallah, leader degli Hezbollah è certamente più popolare di bin Laden, che ha trovato credito presso chi aveva un’ostilità più radicale contro l’Occidente,maha allontanato lamaggioranza dell’opinione pubblica per via delle sue azioni, terroriste nel vero senso del termine. Con la parola terrorismo, diventata quasi una categoria metafisica, si tende a definire quasi tutte le forme di opposizione armata: dalla resistenza all’occupante, a bin Laden, persino a certe forme di opposizione radicale in Occidente.
Lei, invece, usa il concetto di barbarie asimmetrica. Cosa vuol dire?
Il terrorismo dei potenti e quello delle vittime – io dico – sono entrambe barbarie, ma asimmetriche. Sono diverse per cause, responsabilità e conseguenze e pertanto non possono essere messe sullo stesso piano. Gli attentati suicidi di Hamas – che ora sono stati sospesi – sono poca cosa rispetto alla violenza dell’oppressione israeliana: nell’ultimo conflitto, il numero dei morti palestinesi o libanesi è oltre 10 volte superiore a quello degli israeliani. E in Libano si tratta solo di morti accertati, mentre chissà quanti altri ce ne sono sotto le macerie deipalazzi distrutti. Oltre il 90% delle vittime provocate da Israele non è costituito da combattenti o da militanti, ma da civili. La cattura di un soldato israeliano da parte dei palestinesi ha portato all’assalto di Gaza, mentre Israele detiene oltre 10 mila prigionieri palestinesi, la maggior parte dei quali è costituita da civili sequestrati nel territorio che occupa illegalmente dal 1967, in violazione delle leggi internazionali. Non bisogna farsi intrappolare dall’ipocrisia del discorso occidentale dominante.
Con quale metro vanno allora valutate le azioni compiute da Hamas contro i civili?
In certe parti delmondo non si può restare neutrali, la priorità è battersi contro l’occupazione e la guerra. E c’è una differenza di metodo tra organizzazionicomequelle di binLaden e altre come Hamas e Hezbollah: mentre il primo crede che una rete armata, sostituendosi alle lotte di massa, possa obbligare l’imperialismo a ritirarsi mediante il terrorismo, le seconde sono organizzazioni di massa, che ricorrono a certe azioni armate solo in second’ordine, hanno strutture simili ai grandi partiti e propongono un’organizzazione sociale sostitutiva a quella del governo. La loro visione del mondo, religiosa e integralista, però, è sostanzialmente simile. E dunque, da qui a tingere di rosso modelli reazionari e considerarli alleati delle forze che si battono per l’alternativa, ce ne corre. Dall’Iraq alla Palestina è la stessa tragedia: l’assenza totale di forze progressiste credibili, e l’egemonia sulle sacrosante lotte popolari da parte di correnti integraliste le quali, per esempio in Iraq, conducono sì una legittima battaglia contro l’occupante, ma anche una tutt’altro che legittima guerra agli sciiti e a quella che chiamano l’occupazione iraniana, un concetto reazionario e confessionale. Invece, centinaia di migliaia di persone, scese in piazza apiù riprese contro l’occupazione del paese, hanno dimostrato che si può costruire un movimento di opposizione di massa anche più efficace di quella militare che, per definizione, induce una certa passività nella popolazione. Secondo lo storico Samir Kassir, assassinato nel 2005, «l’infelicità araba» risiede nel mancato compimento della modernità.
Come valuta la cosiddetta «Primavera libanese», il movimento che a Beirut ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone innomedel pluralismo culturale e politico?
Si è trattato di un fenomeno contraddittorio, che ha visto convergere la ribellione contro l’intollerabile comportamento dell’esercito siriano e l’attitudine antisiriana di fazioni politiche e confessionali che hanno finito per accomodarsi nel quadro imperialista. Per opporsi alla Siria – dimenticando che il Libano è anche un pezzo di Oriente – una frazione della sinistra ha frequentato personaggi ultrareazionari, ha perso i punti di riferimento e soffocato le speranze suscitate in un primo tempo. In Libano, come nel resto della regione, le idee laiche e di sinistra sonostate travolte dal doppio fallimento delnazionalismo da una parte e dell’Unione sovietica dall’altra, dal crollo di fiducia nello spirito del comunismo e del marxismo. Oggi, al contrario di quanto sostengono analisti qualiGilles Kepel, la presenza dell’integralismo islamico è l’espressione dominante della contestazione sociale e politica in quasi tutto il mondo musulmano. È talmente forte che lo spazio per lo sviluppo di un altro tipo di alternativa è veramente esiguo. È una parte di mondo in cui non c’è un movimento operaio organizzato, distrutto da governi dispotici di destra oppure oppresso da dittature nazionaliste che ne hanno impedito lo sviluppo autonomo. Inoltre, nella battaglia contro il nazionalismo progressista e contro l’Unione sovietica, l’imperialismoha utilizzato l’integralismoislamico. Perché le cose cambino, bisognerà che queste correnti – com’è avvenuto per il nazionalismo arabo alla fine degli anni sessanta e agli inizi dei settanta – mostrino la propria incapacità di far fronte ai problemi in campo.
Ma un’altra condizione è che emerga unnuovoprogetto di sinistra, credibile agli occhi delle popolazioni. L’integralismo islamico, che nelle sue varie declinazioni si propone come alternativa radicale per lemasse arabe oppresse, viene da alcuni definito islamo-fascismo. È d’accordo con questa definizione?
Il mio libro Scontro fra barbarie, in francese, ha al proposito un capitolo intitolato: né fascismo, né progressismo. Alcune frange dell’integralismo, presentano tratti comuni al fascismo, sorto in Europa tra le due guerre mondiali: la base sociale, in parte costituita dalla piccola borghesia, e soprattutto il carattere reazionario in senso proprio, cioè quella volontà – come diceva Marx – di far andare al contrario la ruota della storia.Ma oltre questo, ci sono importanti differenze. Nella primametà del XIX secolo, il fascismo è stato uno strumento utilizzato dal gran capitale in funzione antioperaia, mentre nella maggior parte dei paesi in cui si sviluppa l’integralismo islamico non c’è purtroppo alcun movimento operaio in lotta. L’integralismo islamico è l’espressione deviata del risentimento delle popolazioni e delle masse contro la dominazione imperialista straniera, contro il dispotismo politico locale e anche contro la loro situazione economica. Se tuttavia si considera Hamas o Hezbollah organizzazioni fasciste, si arriva al tipo di reazione avuta da Israele o dagli Stati uniti – i quali però dovrebbero spiegare come mai non hanno usato lo stesso metro con Pinochet in Cile, o non lo usino oggi nei confronti dell’Arabia saudita, un regime più reazionario di quello in Iran che vorrebbero attaccare -, mentre si tratta di un fenomeno diverso: del risentimento della popolazione che vive una situazione di insopportabile oppressione. Al contrario, piuttosto che bombardare e sequestrare la popolazione libanese o palestinese, come stanno facendo Usa e Israele, bisognerebbe rimuovere le cause di quel risentimento.
Pensa che l’invio di forze Onu risolverà la crisi libanese?
La pace va negoziata con tutti gli attori del conflitto, compreso Hezbollah, che chiede a Israele la liberazione dei prigionieri politici, e la restituzione dell’ultima porzione di territorio libanese occupata. Per le comunità sciite libanesi, oggi Hezbollah è l’equivalente di quel che è stata l’Olp per i palestinesi. Molti osservatori hanno sottolineato che, a differenza del 1967, quando Israele riuscì a sconfiggere tre eserciti arabi in 6 giorni, le cose stanno andando diversamente. La resistenza in Libano è sostenuta dalla popolazione sciita, che Israele per vincere dovrebbe sterminare, e per questo le forze di maggioranza all’interno della grande coalizione che ha guidato il paese hanno sempre escluso l’uso della forza. L’intervento dell’Onu servirebbe solo nel caso in cui garantisse gli interessi di tutti,noncome foglia di fico della Nato.