La buona educazione degli oppressi – Romina da “La biblioteca di Montag”
La teoria del disordine stigmatizza le classi sociali povere dalle quali originerebbero l’insicurezza e il degrado urbano. Criminalizza azioni minute che hanno a che fare col decoro e quindi con la pulizia e quindi con una certa idea eugenetica di igiene sociale, pilastro portante del neoliberismo. Igiene sociale che rassicura la classe media, quella dalla quale passa ogni consenso, vezzeggiata e corteggiata dai governi di qualunque colore; quella da proteggere nella propria casa dal furfantello e nelle proprie strade dal mendicante senzatetto. Tranquillizzata che nessun barbone dormirà sulle panchine, nessun migrante le ruberà il lavoro e che nessuna prostituta farà il proprio schiavizzato lavoro sotto i lampioni del centro. Che questi disagi esistano o no, il perché esistano e se esistano programmi per il loro superamento non ha importanza. L’importante è che stiano lontani dagli occhi della classe che detiene il pallino dei consumi e per l’occhio borghese della quale si impiantano ceppi alle panchine e portafiori lungo i marciapiedi. L’ordine e la disciplina di memoria fascista sono l’alibi perfetto per coprire e fare in modo che non si conosca la natura nociva di crimini più complessi che invece attentano trasversalmente alla vita di tutti, ai diritti, all’ambiente, alla felicità. Crimini di chi ruba soldi allo Stato, di chi lascia morire in mare esseri umani alla ricerca di alternative; di chi sotterra scorie radioattive sui fianchi delle montagne; di chi lascia una discarica bruciare per mesi senza intervenire. Per coprire e insabbiare tutto questo – figlio e frutto del neoliberismo – al popolo viene sbattuta in faccia – adornandola di una escalation di rischio che va sotto il nome di teoria della finestra rotta – la pericolosità del lavavetri al semaforo o del venditore di ombrelli alla stazione. Lo scopo della teoria delle finestre rotte non è combattere il crimine, ma placare le ansie dei residenti perbene; e dunque, dopo aver stabilito che il disordine è quasi un crimine, e suggerito che dal disordine potrebbe sorgere il peggio […], per placare queste ansie è assai più efficace, piuttosto che scovare il vero crimine, perseguire il disordine e “la gente disordinata”. Sono, queste, “non persone violente né, necessariamente, criminali, ma poco raccomandabili, indisciplinate o imprevedibili” e, in particolare, “mendicanti, ubriaci e tossicodipendenti, adolescenti chiassosi, prostitute, vagabondi, mentalmente disturbati”. La percezione di un rischio potenziale – dentro la quale ci sta tutto, dai miei pregiudizi ai miei stigmi, al mio radicalismo e alla mia intolleranza – vale più della realtà, di quello che c’è e che si vede.
Il decoro urbano – che si porta dietro gli argomenti securitari e la distorsione del concetto di legalità – è una questione di classe e lo è ancora di più in un contesto politico che da decenni si ostina ad affermare il superamento delle classi sociali processando un livellamento – inesistente nell’ordine delle cose – e un vulnus di riconoscibilità secondo il quale non esistono più servi e padroni, anzi, entrambi condividono lo stesso terreno. Wolf Bukowski in La buona educazione degli oppressi (Alegre) però mette subito in guardia: Cancellata la classe, le persone saranno da un lato isolate nell’individualismo, e dall’altro confusamente riunite nel nazionalismo, riassumendo così in sè le due polarità del neoliberismo, e cioè quella progressiva e ottimista e quella rabbiosa e sovranista, che non si succedono nè si sostituiscono, ma anzi si completano. Questo non significa che la politica del decoro riduca le differenze di classe. Al contrario, le divarica, perchè la cosiddetta quality of life deve trovare dei nemici, degli antagonisti da utilizzare come esempio negativo per affermare se stessa e la positività distorta del bello che porta in dote all’assetto urbano. E gli antagonisti si trovano dove alberga il disagio, l’emarginazione, la fragilità economica, nella lower-class e nel sottoproletariato (non scandalizziamoci, esistono ancora). Di essi si traccia un profilo mediocre e profondamente stigmatizzante come luridi e indifferenti, impermeabili alla bellezza (leggi al decoro) e alla solidarietà. Secondo Edward C. Banfield – teorico dello svuotamento di significato della classe sociale – la persona lower-class è spontaneamente orientata al degrado. I poveri bevono, mangiano male, si danno ad atteggiamenti scomposti, sono disordinati e sciatti, ignoranti e violenti, incapaci di badare a se stessi e ai propri figli. Quindi è bene eliminarli o ghettizzarli. Toglierli in ogni caso dalla vista della gente perbene.
Gli occhi dei politologi, però, guardano gli effetti senza considerare le cause. Bere quando si è poveri è l’unico modo per non sentire la fame; mangiare junk food ha la stessa logica: cibo supernutriente, pieno di zuccheri, sale e grassi saturi, a prezzi economici, gli unici abbordabili dalle classi povere. Non avere una istruzione adeguata segue lo stesso ragionamento e tira in ballo un altro argomento tanto caro al mondo neocapitalista: la meritocrazia, spacciata nei più vari modi, compreso quello fintamente egualitario che la vorrebbe come alternativa ai privilegi di nascita. Non ce la fa chi non è stato capace di vendersi, di spendersi, di offrirsi. Non è stato in grado di rischiare, di puntare su se stesso, di essere scaltro e opportunista. In definitiva: se sei povero, senza istruzione e disoccupato te lo sei meritato. E se si è poveri, senza istruzione o disoccupati e non si fa nulla per migliorare la propria condizione, allora si diventa un obiettivo politico da rimettere in ordine con una distorsione “educativa” del welfare usato in modo disciplinare, educando il povero a meritarsi le prestazioni sociali, ponendolo cioè in condizione di dover convincer ele autorità a concedeergli qualcosa, non potendo esercitare alcun diritto. Come dire: le caramelle solo ai buoni. Ai cattivi il daspo urbano, ovvero l’allontamento dalla città di chiunque violi le norme urbane sul decoro e la sicurezza.
Il decoro non è più ricerca del bello, ma strumento ideologico di azione ed epurazione; di sperequazione di classe e divaricazione sociale. E’ l’arnese con il quale – o la scusa attraverso la quale – colpire le aree di fragilità sociale e fare largo a nuove tipologie di occupazione del territorio attraverso la monetarizzazione e la turistizzazione degli spazi. Il decoro diventa un canale di profitto ripulito da tutte le storture e al quale sono stati sottratti i margini di rischio. Senza il brutto, il decoro apre a una colonizzazione che è appannaggio esclusivo di chi può: dei ricchi e dei turisti che possono permettersi di consumare beni di lusso e quindi di far girare l’economia e quindi di portare lustro ai centri urbani già bonificati dalle varie espressioni della povertà inopportune e indesiderabili.
Il disordine, gonfiato dalla propaganda securitaria e non supportato da alcun dato statistico, si trasforma – nel linguaggio e nella narrazione urbana – in crimine, cioè nell’alibi che consente la militarizzazione delle strade, un aumento del controllo, l’adozione di provvedimenti iniqui ed escludenti che vanno a colpire le fasce disagiate della popolazione (dalle quali si presume il disordine derivi) e a raccoligere – per contro – il consenso della classe media. L’insicurezza delle strade, i pericoli che vi si annidano, i bivacchi notturni, i cartoni dei clochard e l’immigrazione clandestina assaltano le pagine dei giornali e si fanno dinamite sulle bocche delle istituzioni; la paura diventa un argomento politico spendibile in qualsiasi stagione perchè un cittadino che ha paura è un cittadino che si può manipolare. I cittadini devono avere paura, e devono averla tramite discorsi in cui si tirano in ballo i figli e la possibilità di uscire di casa; devono averla tramite la continua esibizione di forza militare[…] I cittadini devono avere paura tramite la reiterazione di messaggi allarmistici in ogni momento della quotidianità […]; i cittadini devono avere paura, e devono averne così tanta da gettarsi tra le braccia di politici pronti a offrire loro un’interessata e pelosa rassicurazione autoritaria.
Un armamentario tipico della destra muscolosa e virile il cui arrembaggio è stato possibile dalla potenza incontrastata del neoliberismo, ma anche da un grave adeguamento ideologico, lessicale e narratologico della sinistra al linguaggio e alle ricette di stampo capitalista. Rinunciando al concetto di classe, facendo della legalità un’appendice militare della gestione interna, identificando per sovrapposizione l’immigrazione con l’insicurezza, già dagli anni Novanta la sinistra ha prestato il fianco – e le sue sorti – ad una avanzata senza freni della destra per la quale ogni rapporto e ogni conflitto, non potendo essere letto come rapporto tra sfruttati e sfruttatori, appare come un conflitto tra interni ed estranei alla comunità immaginata, tra civiltà e barbarie. E, quindi, tra decoro e degrado. La classe, infatti, se da un lato è l’elemento attraverso il quale si riconosce la diversità sociale e la conseguente divaricazione economica che ne deriva, dall’altro è l’elemento che accomuna i lavoratori e gli sfruttati, l’ambito in cui riconoscersi tra simili e nel quale alimentare una coscienza politica che destruttura da ogni fondamento l’assimiliazione del lavoratore al suo datore e insistere sulla falsa idea che le necessità di sicurezza della classe alta siano in realtà necessità di sicurezza per tutti.
La buona educazione degli oppressi è l’occasione buona e necessaria per riconsiderare il dibattito intersezionale tra povertà, decoro e diritti, oltre ad essere uno strumento per approfondire la sistematica politica di occultamento delle dinamiche sociali critiche per le quali non esistono politiche progressiste che segnino una inversione di tendenza; la subdola trasformazione utilitaristica del cittadino senziente in consumatore ottuso; la triviale – e spesso violenta – ricerca di un ordine che altro non è che una cancellazione forzata delle diversità. Chi si avvicina a questo saggio radicalizzarà o riconsidererà le proprie idee sulla militarizzazione degli spazi (anche un portafiori può essere un’arma in mano al potere), sul disagio trasversale delle periferie, sulla divaricazione abissale tra ricchi e poveri, locali e stranieri, lavoratori e padroni. Troverà più domande che risposte, ma molte chiavi per aprire lucchetti.