La cura degli altri è la rivoluzione radicale di cui abbiamo bisogno – Stefania Massari da Vdnews
da Vdnews
Un libro scritto collettivamente, come collettivo è il modello sociale che propone. Il Manifesto della cura (edito da Alegre con la prefazione di Sara Farris e la postfazione di Jennifer Guerra, tradotto da Maria Moïse e Gaia Benzi) è un libro che pone al centro del dibattito culturale la cura, per evidenziare quanto essa sia necessaria all’interno della società in cui viviamo. Gli autori e le autrici sono accademici e attivisti di varie nazionalità residenti a Londra e fanno parte del Care Collective.
Gli attivisti della cura del Care Collective
Il loro intento è quello di far comprendere quanto la cura debba essere promiscua, cioè praticata al di fuori della famiglia e delle logiche di mercato, per mettere in relazione persone che non siano necessariamente vicine e quanto debba ricoprire tutti i livelli della nostra vita per il bene collettivo. Questa visione comporta però l’accettazione del concetto di interdipendenza, ovvero gli Stati, le nazioni, gli enti, le istituzioni e tutti i cittadini devono porsi in maniera paritetica gli uni con gli altri, altrimenti non potrà mai esserci uguaglianza. Interdipendenza significa, infatti, mettersi al servizio dei bisogni dell’intera umanità, in modo tale da redistribuire le risorse globali tra le popolazioni e garantire la costruzione di una società sana dove alla base si pone proprio la cura. «Se la cura diventasse il principio organizzativo di tutti gli stati del mondo, la disuguaglianza economica e le migrazioni di massa diminuirebbero, così come l’ingiustizia ambientale troverebbe rimedio grazie all’impegno reciproco alla cura del mondo», si legge nel Manifesto.
Cura e incuria: due facce della stessa medaglia
Negli ultimi quarant’anni, da quando i governi hanno adottato politiche neoliberiste, ponendo al centro dei loro affari la logica del profitto, di cura non se ne è più parlato, e quello che è emerso è stato un modello di società fondato sulla competizione e non sulla cooperazione. Il collettivo identifica nella politica neoliberista la causa principale dell’incuria che caratterizza la società. Da prima dell’arrivo della pandemia si assiste a una dilagante incuria che colpisce le popolazioni di tutto il mondo: migranti che annegano, donne e uomini uccisi solo per il colore della pelle, femminicidi diffusi in maniera preoccupante, crisi climatica. A livello locale si può notare quanto le città, le campagne e le periferie siano state invase da edifici in abbandono, terreni incolti, degrado. Oggi, invece di costituire un programma che argini questa emergenza su tutti i fronti, le politiche neoliberiste continuano ad agire come hanno sempre fatto e a danneggiare categorie, come le donne, i poveri, i disabili e le minoranze etniche, che si sentono private di un aiuto concreto. Se solo questi stati pensassero alla cura come obiettivo primario di un progetto politico locale e globale, l’incuria non arrecherebbe danno alla collettività.
I quattro punti chiave del Manifesto della cura
A questo proposito, esistono quattro punti chiave che il collettivo suggerisce per creare una comunità di cura:
- Il mutuo soccorso
- Lo spazio pubblico
- La condivisione delle risorse
- La democrazia di prossimità
Il mutuo soccorso
Il mutuo soccorso è inteso come un’azione di reciproco aiuto e le persone coinvolte si sono assunte la responsabilità di prendersi cura l’uno dell’altro e di cambiare ciò che non va all’interno della comunità. Esse lavorano insieme per adottare strategie e diffondere risorse materiali, come cibo, alloggio, assistenza medica e soccorso in caso di calamità. Particolarmente grate a questa forma di volontariato sono state le comunità emarginate: comunità nere, quartieri della classe operaia, gruppi di migranti e comunità LGBT. «Le comunità di cura si basano quindi su diverse forme di mutuo soccorso che sono spontanee, nascono dal basso, ma per riuscire a dare continuità alle proprie attività esse hanno bisogno di un sostegno strutturale, soprattutto da parte delle amministrazioni locali e nazionali», spiega il Collettivo.
Lo spazio pubblico
Lo spazio pubblico, invece, è uno spazio in comproprietà e possono usufruirne liberamente tutti i cittadini. Espandere lo spazio pubblico in nostro possesso significherebbe eliminare la tendenza neoliberista a privatizzare tutto quanto. Inoltre, l’utilizzo di questi spazi favorirebbe la convivialità e l’instaurazione di relazioni solide: parchi, associazioni giovanili, biblioteche, gallerie d’arte, piscine. I parchi, ad esempio, dovrebbero essere ampliati e consentire la creazione di orti urbani per entrare in contatto con la natura, fare esercizio fisico e socializzare con gli altri. Lo stesso vale per l’ambiente edificato. Sarebbe necessaria un’edilizia cooperativa, abitazioni collettive, affitti ribassati. Riprogettare anche uno solo di questi spazi migliorerebbe la convivenza fra le persone e le città assumerebbero un aspetto migliore.
La condivisione delle risorse
C’è anche la condivisione delle risorse fra i punti chiave citati dal collettivo. Le biblioteche di zona sono una di queste risorse perché consentono di leggere un’ingente quantità di libri in maniera gratuita, ma possono anche avere la funzione di hub di comunità dove i lettori hanno la possibilità di accedere a Internet e navigare in tranquillità. Ma esistono anche le biblioteche degli oggetti. Ad Atene alcuni collettivi anticonsumo, come Skoros, hanno affittato dei vecchi negozi, che gestiscono in maniera volontaria da circa dieci anni. Qui si possono trovare vestiti, giocattoli, utensili da cucina e molte altre merci che vengono presi in prestito e poi restituiti dopo l’utilizzo.
La democrazia di prossimità
Questi elementi generano quella che il collettivo chiama democrazia di prossimità: un insieme di procedure volte ad avvicinare le istituzioni ai cittadini che, sentendosi parte attiva, possono dar vita a un esempio di società democratica e illuminata e favorire la ricostruzione del settore pubblico, migliorando i servizi di assistenza indispensabili per la comunità.
La centralità della donna in uno stato comunitario
All’interno di uno stato comunitario le donne dovrebbero ricoprire un ruolo centrale ma così non è perché, se si analizzano i dati riguardanti l’occupazione femminile, la situazione non è per nulla confortante. Il lavoro non retribuito grava soprattutto sulle spalle delle donne e rappresenta il principale ostacolo alla loro partecipazione al mercato del lavoro. Se ne parla nella postfazione de Il Manifesto della Cura, firmata da Jennifer Guerra. Secondo il Gender Equality Index l’81% delle donne italiane svolge ogni giorno faccende domestiche, contro il 18% degli uomini. Le principali conseguenze di tale situazione sono due. La prima è il rischio povertà e la cattiva salute a cui vanno incontro le donne a causa dell’eccessivo carico di lavoro e del forte stress a cui sono sottoposte. La seconda conseguenza ha a che fare con la mancanza di tempo per la propria formazione professionale. In Italia sono ancora tante le donne che non cercano lavoro perché troppo impegnate a casa con bambini, anziani o disabili. L’emergenza Covid, con il suo contraccolpo sui posti di lavoro e con lo smart working, ha ulteriormente aggravato la condizione delle donne. Non è un caso se si parla di Shecession (she-recession): termine inglese utilizzato per indicare la recessione che ha colpito le donne durante la pandemia. Poiché le donne tendono ad avere lavori sottopagati, con un minore accesso alla protezione sociale, beneficiano meno delle reti di sicurezza che alcuni paesi stanno invece implementando.
L’Italia è un paese resistente al cambiamento
Nel nostro paese non vi è un discorso politico sulla cura. L’Italia, secondo i dati Eurostat 2015, è il paese europeo con il maggior numero di persone che dichiarano di non sapere a chi rivolgersi per chiedere aiuto perché spesso i servizi sono privatizzati, quindi a pagamento, e l’avvento della pandemia ha messo in luce la crisi che riguarda i servizi sociali, educativi e sanitari che mettono al primo posto le logiche di mercato e come ultimo il bene della collettività. Bisognerebbe, quindi, invertire la rotta e aprirsi al cambiamento: solo così l’Italia potrebbe diventare uno stato di cura.