La lunga strada verso la coscienza – Franco Foschi da “Quinto Tipo”
da Quinto Tipo
Una volta un famoso scrittore mi disse: «Il suo è un libro necessario». Storsi un po’ la bocca quando sentii questa frase, non ho mai creduto all’esistenza di un libro necessario in assoluto. Penso piuttosto che ogni libro risponda alle necessità di qualcuno, che riempia qualche spazio – esistenziale o altro – vuoto, e possa donare qualcosa. Un libro è un dono, che sia per uno o centomila, poco importa. Quel che coltiva il dubbio, e lo lascerà eternamente irrisolto, è magari il fatto che il libro più venduto di tutti i tempi sia la Bibbia, o che uno dei più grandi successi editoriali tedeschi sia stato Mein Kampf…
Che senso di frescura, e forza, quando però incontri un libro che schiaffeggia la tua perplessità dubbiosa, e ti reintroduce a ciò che è, semplicemente, umano, cioè tutto ciò che è carico di sventura, dolore, violenza, sopraffazione e che però non viene schiacciato, travolto, annullato dal nichilismo, dal vuoto-e-basta, dalla superficialità. Dalla mancanza di senso, alla fine.
Appena terminata la lettura di La farina dei partigiani di Purich e Marini si pensa subito di non avere in mano un libro qualsiasi, né un giocattolo intellettuale né un manuale per storicisti (e universitari…), quanto piuttosto una cosa viva, pulsante, che tragitta con coerenza dallo strazio della Storia all’intensità delle storie personali, per urlare a squarciagola dove sta la giustizia – e in definitiva, citando le ultime pagine, «per cantare assieme ai giovani Bella ciao».
Il movente è il racconto della famiglia di Andrej Marini, una saga proletaria come recita il sottotitolo, dalla descrizione della coscienza operaia nei grandi cantieri navali di Monfalcone (ma partendo anche da prima: dall’umiliazione sottintesa o presunta della necessità di migrazione negli Stati Uniti, esperienza preveggente di quanto quel cosiddetto grande paese non sia affatto cambiato…), poi il transito negli orrori della guerra e delle persecuzioni nazifasciste in quella «terra di mezzo» che è stata la Carnia, poi i travagli dell’ideologia comunista nel periodo postbellico, poi il Sessantotto, poi l’ancor più sofferente travaglio dei comunismi dopo la spallata al muro di Berlino, e mille altre storie. Inutile riassumerle qui.
L’espediente di Piero Purich è, semplicemente, la narrazione. Sappiamo quanto gli storici di professione possano essere pedanti. Prendiamo, che so, la battaglia di Austerlitz: lo storico riferirà con precisione la situazione politica che ha portato alla battaglia, descriverà con dovizia di particolari gli schieramenti e i movimenti sul campo, farà la conta dei morti di ogni parte e infine ne analizzerà le conseguenze politiche. Che fa invece il narratore: prende un ufficialetto e descrive la nostalgia per la moglie, descrive il cavallo che lo disarciona, il cameo che il giovane porta al collo, fa sparare fucili che magari non sono ancora stati inventati, e se è particolarmente empatico racconta del soldato semplice che salva la vita dell’ufficiale mettendo a rischio la propria. Su dieci lettori contenti, uno è perché ha letto il resoconto storico, nove perché hanno letto il racconto e basta.
Però bisogna essere bravi narratori. Ebbene questo libro è (e in condizioni abituali mi vergognerei un poco a utilizzare questo aggettivo) semplicemente travolgente. La perfetta scansione dei tempi tra i racconti del passato e i flash forward non fa calare un attimo la tensione, e la coazione a leggere. Leggere, leggere senza scampo, e coltivare le emozioni delle storie è quasi automatico.
Ma è inutile l’apologia, piuttosto voglio qui descrivere alcuni eventi, alcuni passaggi, alcuni snodi, per cercare di introdurre il lettore più all’ambiente emozionale e ideale che alle storie-per-sé, che quelle si gestiscono e apprezzano solo leggendole. Stimoli, spunti, punzecchiature prese qua e là, per capire di che si leggerà.
– Davvero impressionante il racconto della “velocità” con cui il fascismo si appropriò delle terre cosiddette liberate dagli austriaci, nella Venezia Giulia.
– A sostegno del fatto che le Piccole Storie spiegano meglio la Grande Storia della Grande Storia stessa, un gioiello sia divertente che drammatico è la storia di Piero: licenziato dal cantiere (verosimilmente solo perché comunista) va a casa, prende l’accetta per tornare al cantiere e dare una lezione a chi l’ha maltrattato. Ma sono le donne del quartiere a fermarlo (con la forza!) per impedirgli di rovinarsi la vita.
– Purich sa gestire benissimo anche il tasto della commozione più intensa: leggere per credere la storia che finisce a pagina 117, metafisica, sognante, eppure così vera.
– Un’altra cosa che si può dire del libro è che è onesto: gli autori non risparmiano affatto la descrizione delle contraddizioni interne al comunismo, e sono in grado di parlare di tutto, dalle grandi lotte operaie all’equazione sport=fascismo…
– Nostalgia? Per chi ha sempre utilizzato con orgoglio la parola comunista sembra che l’unica possibilità sia la malinconia – ma c’è sempre la figura di Edi Marini, il padre di Andrej, a essere esemplare: durante un periodo di grande difficoltà economica quando può rifiuta qualsiasi aiuto, perché non vuole vivere della pietà dei compagni… Alla fine di questo libro direi che più che «nostalgia», la parola è «orgoglio».
– Bisogna essere un bravo narratore, dicevo. Segnalo la finezza della descrizione di quei minuti timidi, trattenuti, quando se ne vanno l’ultimo fascista o l’ultimo tedesco e ancora non sai se torneranno oppure no…
– Il pudore di riconoscere che le cose cambiano, che tu cambi: «La guerra, una cosa da giovani».
– Ma il racconto più intenso, intriso di orrore, che sarebbe da leggere obbligatoriamente nelle scuole, è quello della strage di Avasinis perpetrata da SS e fascisti in fuga. La guerra è già strafinita, hai perso senza scampo, ti stai ritirando per tentare di salvare te stesso: perché tutte quelle stragi, e mica di partigiani o soldati, no, vecchi, donne, bambini… Queste pagine, col libro in dirittura d’arrivo, sono un urlo straziante contro tutti i fascismi, che ne denuncia l’unica vera passione: quella per la morte, non per la vita.
– Ma non voglio dare l’impressione che questo libro sia tutto voltato all’indietro, è un libro per tutti e per sempre. Aneddoto: che il mondo sia globalizzato lo dimostra Marini nell’epilogo, quando fa una citazione (bellissima!) di… Spike Lee! – tra l’altro ricordandoci che non è l’ideologia, sono gli ideali che possono battere il fascismo.
Volevo concludere questo scritto cercando un buono spunto per una frase che mi aveva colpito a pagina 386, «[…] le idee non camminano da sole, ma hanno bisogno di uomini onesti e leali in grado di portarle avanti». Ineccepibile. Ma poi, chiuso il libro, c’è che il libro finisce all’ultima riga, e l’ultima riga di pagina 461, in questo caso, è un proclama, una sintesi, un concetto più che mai vero, un obiettivo aureo, una volontà da riscoprire, una chiamata, o più semplicemente, la coscienza.
(Piccola crudeltà strategica: compratevi il libro, per leggerla. Invece no. Eccola)
LA NECESSARIA LOTTA DI CLASSE CONTRO I PADRONI