“La morte, la fanciulla e l’orco rosso” – Franco Astengo su “La bottega del Barbieri”
«La morte, la fanciulla e l’Orco rosso» (sottotitolo: «Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana»; edizioni Alegre) è il titolo del volume che il collettivo Nicoletta Bourbaki ha dedicato a due casi di mistificazione della verità messi in piedi per denigrare (semplifichiamo) la Resistenza Savonese: quello del presunto stupro e femminicidio di Giuseppina Ghersi – con aggancio alla sparizione della famiglia Biamonti – e quello della (inventata) strage del Monte Manfrei.
Fatti avvenuti, secondo i “costruttori” della vulgata di quegli eventi nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione e raccontati secondo gli schemi usati da Giampaolo Pansa ne «Il sangue dei vinti».
In questa occasione non entreremo nel merito del testo e non svilupperemo alcuna recensione.
Un aspetto di questo lavoro svolto dal collettivo appare quanto mai interessante ed è il caso di attirarvi un momento d’attenzione.
Gli autori, infatti, nella prima parte del loro lavoro titolata «Rovesciare la cronaca per rovesciare la storia» utilizzano come introduzione agli episodi savonesi centrali nel testo, la lettura delle pagine del «Corriere della Sera» (denominazione mutata, alla Liberazione, in «Corriere d’Informazione», poi diventato testata del supplemento del pomeriggio e «Nuovo Corriere della Sera») dedicate alle vicende partigiane che interessavano la magistratura ordinaria perché considerati fatti delinquenziali e non resistenziali. «La nera tra smobilitazione di regime e contaminazione» e il «codice della montagna, dal processo dei partigiani al processo ai partigiani» caratterizzano i capitoli con i quali gli autori scorrono le pagine del «Corriere» pubblicati nel corso degli anni impegnandosi in un’opera di attribuzione di delitti ordinari al movimento partigiano (a partire dalla strage di Oderzo e all’eccidio di Schio, oppure per restare dalle nostre parti al caso della «corriera di Cadibona» e ancora alle vicende legate alla figura di “Gemisto” Moranino).
Si tratta del filone che ancora adesso ispira il neo-presidente del Senato, Ignazio La Russa, quando dichiara di non voler celebrare il 25 aprile: è la linea della damnatio memoriae che ha contraddistinto, per un lungo periodo, non soltanto la destra ma anche la gran parte del moderatismo italiano nei confronti della lotta partigiana, nel tentativo di cancellare la realtà delle stragi nazifasciste le cui responsabilità sono rmaste per decenni rinchiuse nell’«armadio della vergogna» nelle stanze del Tribunale Militare di La Spezia.
«Moderatismo italiano» le cui principali espressioni politiche tennero un comportamento ambiguo anche nell’occasione della decisiva scelta repubblicana.
«Moderatismo italiano» che oggi fatica a riconoscere il tipo di destra presente nell’attuale governo e fa finta di non comprendere ciò che, qualche giorno fa, è accaduto a Predappio.
Dalla rottura della “solidarietà antifascista” venuta avanti con la scissione del PSI a Palazzo Barberini e la pressoché conseguente esclusione di comunisti e socialisti dal governo De Gasperi (maggio 1947), l’ingresso in parlamento del MSI, l’ utilizzo di quel partito da parte della DC per ardite operazioni di sbarramento verso la sinistra (governo Zoli, governo Tambroni, elezione di Leone alla presidenza della Repubblica, reclutamento di fascisti o neo-fascisti per i depistaggi del SIM a partire dalla strage di Piazza Fontana, referendum sul divorzio), la litania della «Resistenza Rossa» ha raggiunto i nostri giorni.
L’attacco violento portato avanti per anni contro la Resistenza, negando ad essa anche la paternità di una Costituzione più volte attaccata, ne ha provocato un’attribuzione di “parte” che, a un certo punto, è risultata appannaggio inevitabile per chi intendeva mantenere «la verità della memoria» contro ogni uso politico della storia.
La «Resistenza Rossa» negli anni’50-’60-’70 ha impedito la cancellazione tout court della lotta di Liberazione intesa come punto di saldatura della coesione nazionale (compresa la mancata riflessione sulla brusca uscita di scena sul piano istituzionale del modello CLN e sull’esperienza dei consigli di gestione nel campo economico).
Questo libro dei Bourbaki richiama oggettivamente il fenomeno della distorsione e dell’allontanamento dalla memoria della Resistenza avvenuta nella fase centrale del ‘900. La situazione si è poi modificata almeno a partire dall’elezione di Pertini alla Presidenza della Repubblica (avvenuta nella fase più drammatica della vicenda repubblicana) e dalla pubblicazione del fondamentale saggio di Claudio Pavone sulla «moralità della Resistenza».
In quella fase furono così aperti varchi (anche dai vertici delle istituzioni, se ci riferiamo ad esempio al discorso di Luciano Violante sui «ragazzi di Salò») in un mediocre tentativo di pacificazione poi arrivato fino al punto in cui, degradato pericolosamente il sistema politico italiano, sono mutati elementi fondamentali dell’immaginario collettivo e siamo arrivati al Berlusconi che celebra il 25 aprile con il fazzoletto tricolore al collo.
Si sono sì verificate giuste riscoperte di (malamente) definite «altre Resistenze» (a partire dagli IMI e al ruolo dei reparti militari aggregatisi agli alleati) ma si sono allentati progressivamente i segni dell’attenzione sulla verità storica (l’avvento dei neo-fascisti al governo nel 1994 fu seguito da una forte reazione con la manifestazione del 25 aprile a Milano ma progressivamente la tensione si è pericolosamente allentata).
Il metodo di riferimento alla cronaca del tempo usato in quest’occasione dal collettivo Bourbaki partendo dalla lettura delle pagine del «Corriere della Sera» ha contribuito a ristabilire margini di chiarezza e invito alla necessaria presa di coscienza collettiva (come è stato del resto con lavori meritori di Davide Conti, di Mimmo Franzinelli e di altri intellettuali).
Senza nasconderci la complessità del periodo storico dobbiamo allora opporci all’oblio della «Resistenza Rossa». Questo oblio che aveva inoltre relegato come semplice forma di dissenso quella parte di partigianeria che pensava al dopoguerra come una fase di profondo rivolgimento sociale e rimase delusa nelle sue aspettative, trovando poi uno sfogo con i ragazzi delle “magliette a strisce” protagonisti dei fatti del luglio ’60 (ultimi fuochi della Resistenza o primi vagiti del ’68?).
E’ stato proprio il richiamo di quella «Resistenza Rossa» che ha consentito, negli anni cupi del centrismo e della repressione operaia, la conservazione della memoria dei fatti che fra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile del 1945 non portarono soltanto alla Liberazione, ma anche alla centralità sociale della classe operaia e all’affermazione dell’identità nazionale consentendo all’Italia, pur sempre considerata nel novero delle nazioni perdenti, di sedere ancora nei consessi internazionali senza essere “spartita” fra eserciti occupanti come capitò alla Germania e all’Austria.
Quest’ultimo fatto storico è stato molto sottovalutato dalla storiografia corrente così come il valore avuto dagli scioperi proposti dal PCI e portati avanti dal CLNAI nelle grandi fabbriche del Nord fin dal novembre 1943 e che raggiunsero il loro culmine nella settimana fra il 1° e il 7 marzo 1944, in conclusione dei quali migliaia di operai furono avviati ai campi di sterminio.
Un momento drammatico che rappresentò il vero punto di riferimento della crescita della Resistenza come fenomeno di massa, in quell’ottica di completamento del Risorgimento di cui aveva scritto Antonio Gramsci dal profondo del carcere in cui era stato rinchiuso nel vano tentativo di spegnerne la forza intellettuale, risultata invece decisiva per costruire l’Italia democratica.