La morte, la fanciulla e l’orco rosso – Matteo Maerro su Doppiozero
Da Doppiozero
Tutti conoscono la litografia di Maurits C. Escher in cui si salgono e si scendono scale collegate tra loro, senza essere certi di quali portino su e quali giù. Il saggio La morte, la fanciulla e l’orco rosso di Nicoletta Bourbaki – un nom de plume su cui torneremo – lascia al lettore una sensazione di straniamento dai tratti escheriani.
Le “scale” vanno intese in una duplice accezione, quella primaria, evocata dall’opera di Escher, e quella figurata, derivante dall’uso cartografico del termine, che serve a indicare un rapporto di grandezza. Nell’indagine storica proposta da Nicoletta Bourbaki si sale e si scende di livello più volte, alternando il macro al micro – cambiando scala, per l’appunto – ma passando anche dalla storia alla metastoria, dalla critica delle fonti alla ricostruzione e decostruzione di narrazioni che dimenticano del tutto le fonti.
Le leggende antipartigiane e l’attacco alla Resistenza
Il sottotitolo dell’opera – Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana – è d’aiuto per comprendere alcuni degli obiettivi del testo. Su tutti vi è l’esplorazione dei meccanismi attraverso cui si diffondono le forme di narrazione “anti antifascista”, il cui fine, più che commemorare vere o presunte vittime della guerra civile partigiana, è la delegittimazione della Resistenza.
Negli anni le occasioni in cui il discorso pubblico ha cavalcato questa vague sono cresciute: su tutte domina la querelle che si sviluppa in occasione del 10 febbraio – Giorno del ricordo – quando esponenti della destra politica, alludendo a una inventata “congiura del silenzio”, che sarebbe durata fino a tempi recenti, strumentalizzano le “complesse vicende del confine orientale”, costruendo una sorta di contro–martirologia delle vittime uccise dai partigiani (meglio se comunisti e jugoslavi) da opporre al paradigma resistenziale.
Proprio in occasione di un Giorno del ricordo – correva l’anno 2017 – Nicoletta Bourbaki faceva la sua prima importante comparsa su una testata culturale di rilievo per firmare un accurato dossier intitolato “La storia intorno alle foibe”.
In precedenza articoli firmati da Nicoletta Bourbaki erano stati ospitati (e lo sono tuttora) dal blog Giap, spazio web del collettivo di scrittori Wu Ming. Qui si può leggere che, dietro al nome, si cela un composito «gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulla riabilitazione dei fascismi in tutte le sue varianti e manifestazioni».
Il “caso Ghersi”
Nel saggio, pubblicato da Alegre, gli intenti del gruppo di lavoro sono perseguiti nella loro interezza. I fari sono puntati su di un fatto avvenuto alla fine di aprile del 1945 in Liguria, a Savona: la fucilazione, da parte di esponenti del Cln savonese, di Giuseppina Ghersi, una quattordicenne accusata di collaborazionismo e di essere una spia dei fascisti. Si tratta di un episodio che in sé si perderebbe nel convulso e drammatico frangente in cui avviene la Liberazione delle grandi città del nord Italia. Come è acclarato da sempre proprio a smentire qualunque ipotesi di “congiure del silenzio”, le numerose esecuzioni di militari e civili su delibera dei Cln locali nei giorni a ridosso della Liberazione, per quanto talvolta sommarie, hanno il fine di arginare e contenere una ben più caotica rabbia collettiva, alimentata da ciò che la popolazione ha visto o subito, nella generale impotenza di agire, per tutta la durata della Repubblica Sociale.
Negli ultimi anni a riprova dell’offensiva culturale anti antifascista in atto attorno alla vicenda di Giuseppina Ghersi si è alimentata, a partire da dispositivi retorici ben precisi, una strutturata leggenda antipartigiana. Prima nel sottobosco della letteratura neofascista e poi nel mainstream, la storia si è sganciata dagli eventi storici provati e ha assunto i contorni dell’archetipo: non solo fucilata, ma brutalmente violentata; non uccisa in quanto collaborazionista e sospetta delatrice, ma perché autrice di un tema celebrativo del fascismo premiato da Mussolini in persona; non semplicemente uccisa, ma, prima di morire, anche umiliata pubblicamente con rasatura dei capelli e “M” dipinta sul volto con la vernice rossa (con tanto di foto falsa a dimostrarlo).
Quella di Ghersi si è trasformata in una vicenda fittizia ma esemplare, pienamente inseribile nel filone dell’uso emozionale del racconto storico. Diventata un’icona del genere, non stupisce che un’amministrazione locale, in un piccolo comune pugliese, si sia spinta a intitolare una via alla “vittima della violenza partigiana”.
Proprio a partire da questo aspetto di intitolazione odonomastica che ritroviamo con dinamiche identiche ma ben più diffuse nello spazio pubblico per la vicenda di Norma Cossetto si apre il percorso di ricerca “à la Escher” di Nicoletta Bourbaki.
Archetipi della narrazione antipartigiana
La prima scala che il lettore è invitato a salire conduce lontano. Ci si arrampica a conoscere e analizzare criticamente forme e archetipi di cui sono costituite le “leggende antipartigiane”. Secondo queste i partigiani sarebbero molte cose, tutte ugualmente biasimevoli: codardi che fuggono la chiamata di leva, banditi senza scrupoli che approfittano della guerra per arricchirsi, fanatici politici che uccidono senza pietà in nome della rivoluzione, efferati stupratori che si accaniscono sulla popolazione civile. Sono definizioni di idealtipi negativi, spesso antitetici tra loro, ma che si ritrovano già, a guerra civile in corso, nella pubblicistica repubblichina. Poi riemergono, a tratti, tra fine anni Quaranta e primi anni Cinquanta, quando all’apice della contrapposizione bipolare e in un’Italia che non si è “defascistizzata” davvero ha luogo una sorta di primo “processo pubblico” alla Resistenza, fatto di allusioni denigratorie e montature giudiziarie.
La sotterranea insofferenza per l’antifascismo, pur emergendo episodicamente in modo carsico, resta a lungo confinata nel discorso politico culturale della destra più reazionaria o nei circuiti delle sottoculture nostalgiche del fascismo. Bisogna aspettare gli anni Novanta con il crollo della “prima Repubblica” e lo sdoganamento dei post fascisti attraverso Fiuggi perché l’attacco alla Resistenza si esprima anche sul piano dell’egemonia culturale. Allora si sviluppa la grande ondata revisionista che trova un primo momento culminante in Il sangue dei vinti (2003) di Gianpaolo Pansa, un vero successo editoriale che va molto oltre i recinti tradizionali della cultura di destra e contribuisce a conficcare anche nell’immaginario di sinistra il dubbio che «Anche i partigiani, però…».
Le critiche a Pansa sono note. I suoi non sono libri di storia, mancano totalmente degli elementi portanti del metodo storiografico: il generale riferimento alle fonti primarie o secondarie, l’inserimento dei fatti nel loro contesto, la dimostrabilità delle ipotesi che rovesciano una lezione dominante accettata dalla storiografia. Insomma, si tratta di fiction che prende e saccheggia la storia, facendone un uso compiaciuto e strumentale ai propri fini. Il problema è che queste operazioni, complice anche la capacità dell’industria culturale di fiutare il vento politico, hanno avuto successo. Così il “fenomeno Pansa” e tutto ciò che gli è orbitato attorno sono stati il terreno fertile su cui hanno attecchito le leggende antipartigiane o anti antifasciste.
Il difficile lavoro storico
Dopo aver sviluppato la decostruzione delle retoriche anti antifasciste, Nicoletta Bourbaki ci fa percorrere una rampa di scale in discesa verso l’histoire au ras du sol, come definì Jacques Revel la “microstoria” nel 1989.
Il lettore è invitato a chiedersi «Cosa c’è di vero nella storia che circola attorno al caso Ghersi?». Molto poco, si scoprirà. Alla risposta si arriva grazie a un saggio del mestiere della/lo storica/o: esplorazione di archivi, in cui si scovano atti parrocchiali, sentenze di tribunale, ordini di polizia; ricostruzioni critiche sulla base della memorialistica, da passare al setaccio del filtro interpretativo che ogni testimone frappone fra il suo ricordo dei fatti e i fatti; confronto serrato con la letteratura secondaria esistente. Chi vuole fare storia, lavora così.
Le indagini permettono di inquadrare meglio le vicende che conducono alla fucilazione di Ghersi, depurandole dagli elementi di pura invenzione che accompagnano la vulgata antipartigiana. Ad esempio, il dettaglio più scabroso, cioè lo stupro, vero e proprio leitmotiv nella sintassi simbolica del discorso reazionario, è assente da qualunque riscontro documentario prodotto a ridosso dei fatti.
Solo nel 1949, quando si aprono alcune vicende processuali nel generale clima di delegittimazione della resistenza, Giovanni Ghersi, padre di Giuseppina, viene invitato dal tribunale a scrivere un memoriale in cui, contrariamente a quanto denunciato nei primi giorni di giugno 1945, accenna all’ipotesi della violenza sessuale nei confronti della figlia. Non basta: la pubblicistica nostalgica, che, nell’immediato dopoguerra, utilizzava ogni qual volta poteva l’argomento dei partigiani violentatori, non raccoglie lo spunto. Bisogna attendere gli anni Novanta e due libri di chiaro orientamento neofascista – La stagione del sangue di Massimo Numa e Il boia di Albenga di Gianfranco Simone – perché vi siano cenni al fatto che Giuseppina sia stata “a lungo seviziata” e “violentata”. Inevitabilmente con Pansa – che attinge a piene mani alla sotto letteratura neofascista e la rielabora – il caso Ghersi (“la violentarono e la pestarono”) entra nel mainstream. L’orco rosso, assetato di sangue innocente, è servito.
Riguardo allo “stupro partigiano” Nicoletta Bourbaki individua un “surplus qualitativo e quantitativo d’infamia”: accanto a cifre inventate di sana pianta ma “implausibilmente precise” – 3.245 oppure 4.768 violenze sessuali perpetrate dai partigiani, si legge nei blog neofascisti – sono accostate vicende individuali arricchite di particolari per sfruttarle come strumento retorico emotivo. Non mancano in queste narrazioni, stereotipi machisti e vere e proprie punte di atteggiamenti voyeuristici. Sul discorso della violenza di genere all’interno del contesto della guerra civile nel libro si apre una più vasta riflessione che problematizza l’argomento, pur nella difficoltà di una questione rimasta a lungo «fuori fuoco, sempre ai margini dell’inquadratura, anche negli spazi antifascisti dove si sconta un’incapacità di leggerla e riconoscerla […].» La questione di genere resta un “antico rimosso” con il quale si fatica a fare i conti.
Una spia fascista? Fare i conti con la “resa dei conti”
La famiglia di Ghersi lavorava nel commercio ortofrutticolo e risulta ben inserita nel sistema di potere del fascismo repubblicano savonese, al punto da far acquartierare nei propri locali distaccamenti della San Marco, e dedita all’accaparramento e alla borsa nera. Dalla perlustrazione degli archivi non emerge alcun tema scolastico di elogio del fascismo, ma solo una lettera indirizzata al duce, scritta a fine 1944, una delle tantissime che Mussolini riceveva. Ma questa lettera, lungi dall’essere la causa della sua fucilazione, è semplicemente un indizio che permette di capire che Giuseppina Ghersi era una giovane ragazza, convintamente fascista, non meno della propria famiglia, con tanto di zio attivissimo componente delle Brigate Nere. La morte della ragazza sarebbe da addebitare – indica la ricostruzione – a una serie di comportamenti delatori che la giovane avrebbe messo in atto ai danni di antifascisti o appartenenti al movimento di liberazione, oltre all’ostentazione ripetuta delle proprie strette relazioni con esponenti del fascismo repubblicano locale.
Gli elementi indiziari sulle attività di collaborazionista e presunta delatrice della ragazza sono numerosi: concordano tra loro le denunce effettuate poche settimane dopo la liberazione alla “polizia partigiana” con le deposizioni in aula, svoltesi anni dopo in tutt’altro clima, a partire dal 1949, quando si riaprirà il caso.
Lo scrupolo nel voler dimostrare che Giuseppina Ghersi era una fanatica fascista, probabilmente responsabile della morte o deportazione di antifascisti, dovrebbe servire allo scopo di sgomberare il campo dalle illazioni antipartigiane, che hanno preso il caso per ricamarci attorno una storia fittizia: «Documenti e testimonianze sono inequivocabili: […] la causa della sua morte è un omicidio “senza alcuna ragione diversa dalla lotta contro il fascismo”».
Una citazione tratta da Ferro di Primo Levi è posta in esergo all’inizio del libro: «Fu ucciso / con una scarica di mitra alla nuca, / da un mostruoso carnefice bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni / che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori». Sulla medesima citazione si ritorna molte pagine dopo, in una disamina dell’arruolamento di ragazzini minorenni da parte dei repubblichini e della partecipazione femminile alle attività della repubblica sociale. Il sillogismo a cui si mira è presto spiegato. Non importa che Giuseppina Ghersi sia donna, non importa che abbia poco più di tredici anni, può comunque essere una pedina efficace e spietata al servizio del fascismo di Salò. Dopotutto, è una fascista convinta che vuole mettersi al servizio della repubblica sociale, cos’altro potrà mai fare se non la delatrice? E il suo nome, oltretutto, compare anche in due diversi elenchi di spie redatti dal Cln della sottozona di Savona, risalenti al marzo e all’aprile del 1945. L’inferenza successiva sembrerebbe voler accompagnare un ragionamento che suona su per giù così: non sarà stato edificante, ma non ci si può stupire che, al momento della liberazione, Giuseppina Ghersi sia stata passata per le armi.
Qui si annida un problema che rischia, nel salire e scendere le scale della ricostruzione, di farci cadere. Nell’analizzare vicende che hanno il punto culminante nel momento dell’insurrezione partigiana adottare un paradigma di precisa e lineare razionalità è un approccio limitante. Insistere sugli indizi di colpevolezza per spiegare e a tratti giustificare l’esecuzione, beninteso nel drammatico contesto dell’epoca, non permette di sviluppare una riflessione più ampia riguardo all’intreccio tra la giustizia partigiana e la rabbia popolare pronta a esplodere in forme poco controllabili, una matassa complessa e poco gestibile anche dalle stesse forze del Cln che si sforzano, in ogni modo, di instaurare una nuova e più fondata legalità a fascismo abbattuto. Insomma, senza un documento che riporti una qualche sentenza fosse pure di un improvvisato “Tribunale del popolo”, comunque legittimo secondo le direttive del Cln, stabilire se Giuseppina Ghersi sia stata uccisa in quanto delatrice diventa persino secondario. È altamente probabile che corrisponda alla realtà dei fatti, e molti indizi lo confermano, ma una volta confutate le calunnie che alimentano le leggende neofasciste non è questo il punto che davvero dovrebbe interessare lo storico.
Nella vasta bibliografia utilizzata, esplorando le dinamiche della resa dei conti nelle grandi città del nord Italia, sembra mancare la lezione offerta dal saggio di Nicola Adduci: Gli altri. Fascismo repubblicano e comunità nel Torinese (1943 1945). Adduci riflette sugli episodi di giustizia sommaria e di violenza insurrezionale, cercando di chiarire come la spietatezza della guerra civile e delle efferatezze nazifasciste abbia portato a introiettare una violenza che sarebbe estranea, nei motivi e negli ideali, alle forze della Resistenza e alle comunità che vi fanno riferimento: «È la raggiunta non umanità, la spersonalizzazione, a rendere dunque sempre meno importante agli occhi della comunità la colpa individuale in questa o quella esecuzione di civili […]. Essere fascisti diventa un male in sé, una colpa collettiva che non prevede sconti, talvolta neppure per chi si è tenuto lontano dalle violenze per scelta, per caso, per il ruolo ricoperto o per la giovane età.»
Riflessioni come questa fondate su una documentata disamina dell’alienarsi del fascismo repubblicano dal favore popolare in una città come Torino possono riorientare gli obiettivi della “storia militante” verso una dimensione non semplicemente “reattiva” nei confronti del discorso pubblico reazionario. Per passare al contrattacco è necessario costruire una dimensione interpretativa più ampia e problematica della “guerra civile”.
Se come sembra dal quadro indiziario l’esecuzione di Ghersi fosse pienamente giustificabile, in nome della “lotta al fascismo”, il problema interpretativo della legittimità della violenza insurrezionale si porrebbe lo stesso. Volerlo aggirare in nome dell’alta idealità del movimento resistenziale indiscutibile anche per chi scrive significa provare a far stare in piedi i processi storici sulla testa e non sulle gambe. Questo non significa cedere di un millimetro nella sfida culturale contro la delegittimazione della lotta antifascista. Leggere la “resa dei conti” attraverso le chiavi di lettura della storia sociale e dell’antropologia storica (e non solo della storia politica) è forse il modo migliore di onorare la Resistenza.
Fare storia collettivamente
Sbaglierebbe chi pensasse che la valenza militante dell’opera di Nicoletta Bourbaki si concentri nell’aver smontato i cliché della vulgata antipartigiana. La vera forza eversiva del progetto che fa riferimento a Nicoletta Bourbaki sta nella sua irriducibile dimensione collettiva. In tempi in cui domina, anche nella storiografia, la tirannide dell’io, è prezioso poter tornare alle basi dialettiche del sapere storico, che passano ineludibilmente dalla consapevolezza che i fondamenti epistemologici della disciplina necessitano del confronto collettivo, orizzontale e fecondo tra chi pratica la ricerca.
A questo stimolo si sono invece sottratti, negli ultimi decenni, anche molti intellettuali progressisti. D’altra parte, in Italia, l’espressione inglese Public History si è ben presto limitata a indicare una sfida tra “storia divulgativa” con la sua riduzione commerciale ad opera dell’industria culturale e semplice “uso pubblico della storia” con tutto ciò che ne è derivato sul piano della lotta per l’egemonia nel discorso politico.
Questo è accaduto anche per una complessiva incapacità da parte degli storici di professione di agganciare alcuni processi che hanno attraversato la società. Dentro e fuori dall’accademia sono state abbandonate virtuose pratiche seminariali e partecipative di ricerca storica nate sull’onda lunga degli anni Settanta e sedimentate ancora nei primi anni Novanta: esperienze sorte spontaneamente seminari autogestiti, laboratori di ricerca di base e centri di documentazione storica territoriale sono state lasciate orfane del patrocinio accademico o istituzionale che avrebbe permesso di incidere realmente nella costruzione di consapevolezza diffusa riguardo agli intrecci tra sapere storico e pratica attiva della cittadinanza.
Nel pieno dell’affermazione reazionaria globale sovranista e neoliberale , oggi la sfida per la storia è una lotta tra due concezioni contrapposte, che riflettono differenti visioni della società: a un’idea del sapere storico basata sul principio d’autorità, sulla prevalenza delle spiegazioni macroeconomiche e geopolitiche, se ne contrappone un’altra antiautoritaria e collettiva, incentrata su una visione problematica e dialettica del passato in cui i processi si attivano a partire dall’interazione delle soggettività e si interpretano ricorrendo all’approccio interdisciplinare. È praticando la ricerca storica in quest’ultima direzione che essa assume i contorni della militanza, accentuando la dimensione emancipante, pluralistica, soggettivante. Per questo intrinsecamente antifascista.
È un lavoro faticoso che non si può fare senza adeguata cassetta degli attrezzi o inseguendo i sensazionalismi, ma, sull’esempio di pratiche virtuose che, come nel caso di Nicoletta Bourbaki, già si muovono in questa direzione, si intravedono le possibilità che lo studio del passato ci offra gli strumenti per scardinare il presente a cui siamo incatenati.