La morte, la fanciulla e l’orco rosso – Graziella Gaballo su Quaderno di storia contemporanea
di Graziella Gaballo – Quaderno di storia contemporanea n. 73 – Recensioni

Sempre di più il “fare storia” tende, attraverso una pratica di Public History, a rispondere, con gli strumenti e le specifiche competenze e senza snaturare il metodo storico in deroga al rigore scientifico, alla domanda di un pubblico non specialistico. Tra le finalità della Public History, come risulta dal Manifesto approvato dopo l’assemblea della società italiana nel giugno 2018, c’è oltre al «promuovere la conoscenza storica e le metodologie della ricerca storica presso pubblici diversi favorendo il dialogo multidisciplinare» anche quella di «contrastare gli ‘abusi della storia’, ovvero le pratiche di mistificazione sul passato finalizzate alla manipolazione dell’opinione pubblica». Un esempio interessante a questo riguardo è, a mio parere, costituito dalle ricerche di Nicoletta Bourbaki, nome dietro cui si cela un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulle ideologie neofasciste, nato nel 2012 durante una discussione su Giap, il blog di Wu Ming e di cui fanno parte storici, ricercatori di varie discipline, scrittori, attivisti e semplici appassionati di storia. Proprio a questo gruppo si deve il merito di aver sollevato l’attenzione sul “caso Giuseppina Ghersi”, da tempo cavallo di battaglia dell’estrema de- stra savonese, che è stato analizzato da Nicoletta Bourbaki nel post Il caso #GiuseppinaGhersi. Incongruenze, falsi e zone d’ombra.(Una prima ricognizione).
La storia della tredicenne Giuseppina Ghersi – che, secondo un manifesto affisso nel savonese nel 2012 dal partito “La Destra” e dall’associazione neofascista “Ragazzi del Manfrei”, sarebbe stata accusata nel 1945 di essere una spia nazifascista, rapita, imprigionata e torturata nel campo di concentramento partigiano di Legino, seviziata insieme alla madre sotto gli occhi del padre e infine uccisa – è stata riportata in auge nel settembre del 2017, con l’annuncio di una targa in suo ricordo. A Giuseppina Ghersi aveva dedicato un articolo il «Corriere della Sera» il 15 settembre del 2016, in cui si descriveva quanto sarebbe successo, cioè che «Giuseppina, tredicenne, fu prelevata da tre partigiani, picchiata e seviziata, forse violentata, davanti alla madre e al padre che scrisse come gli uomini la presero a calci “giocando a pallone con lei” fino a ridurla in stato comatoso. La raparono a zero, le dipinsero la testa di rosso, la sfigurarono a botte. Poi la giustiziarono con un colpo alla nuca, il corpo fu gettato davanti al cimitero di Zinola. Studentessa, Giuseppina aveva vinto un concorso a tema e aveva ricevuto una lettera di encomio da Benito Mussolini: questo uno dei più gravi indizi contro di lei accusata di essere una spia delle Brigate Nere». Nello stesso articolo veniva citata anche una foto del suo arresto che la ritraeva, «il volto imbrattato di scritte, le mani legate die- tro la schiena, prigioniera fra uomini adulti armati e sorridenti», foto che Forza Nuova aveva anche usato in un suo manifesto, in cui si affermava che “la colpa” di Giuseppina era stata quella di aver ricevuto i complimenti del segretario particolare di Mussolini dopo aver vinto un concorso scolastico nazionale.
Il lavoro di decostruzione di Nicoletta Bourbaki parte proprio dalla foto citata che ritrarrebbe Giuseppina Ghersi, osservando come sia sufficiente una ricerca su Google Immagini per scoprire che essa circola da anni, riferita ai più vari accadimenti e con diverse didascalie e viene spesso usata, ad esempio, per illustrare articoli sulle pubbliche umiliazioni di collaborazioniste. La foto, quindi, non ritrae Giuseppina Ghersi e documenta invece, verosimilmente, la pubblica esposizione di una collaborazionista, forse di un’ausiliaria della RSI alle quali spesso venivano marchiati i visi con la lettera M – iniziale di Mussolini e della Legione Muti. Ma il collettivo Bourbaki evidenzia discordanze e contraddizioni anche e soprattutto per quanto riguarda le altre fonti cui si fa riferimento: la storia costruita su “il caso Giuseppina Ghersi” – raccontata per la prima volta nel 1992 nel volume La stagione del sangue. Il triangolo della morte Savona-Riviera – Valle Bormida di Massimo Numa, e poi nel 1998 nel Il boia di Albenga di Gianfranco Simone e ripresa infine nel 2003 da Giampaolo Pansa in Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25aprile – è basata infatti su una ricostruzione del tutto inattendibile, volutamente vaga e condotta con una straordinaria leggerezza nell’uso delle fonti, con scopi e finalità politiche e non storiche; nessuno di coloro che ha creato il “caso” Giuseppina Ghersi si è posto questioni di merito e metodo, che sono invece imprescindibili per chiunque voglia affrontare una questione storica. Si tratta, infatti, di un racconto che, se lo si legge in maniera non totalmente acritica, appare da subito facilmente smontabile, come appunto ha fatto il collettivo Bourbaki che però dopo questa pars destruens, ha iniziato sul “caso Giuseppina Ghersi” indagini serie, per scoprire cosa accadde davvero a quella ragazzina.
Quello che la loro ricerca, dopo un lungo lavoro negli archivi, analisi dei documenti, sopralluoghi e raccolte di testimonianze, ha portato alla luce e di cui questo libro dà conto è che Giuseppina Ghersi, che «frequentava intimamente» nonostante la giovane età marò repubblichini e brigate nere e minacciava e terrorizzava le persone da cui sentiva criticare il regime, era nota per essere organica alle brigate nere e per aver agito come delatrice all’interno del proprio quartiere, con denunce che potrebbero essere state alla base di arresti, deportazioni e fucilazioni e che era stata uccisa da mani sconosciute nelle ore della insurrezione: il suo omicidio non avrebbe quindi «alcuna ragione diversa dalla lotta contro il fascismo». L’ultima parte del libro è dedicata alla decostruzione di un altro presunto episodio di “crimini partigiani” ambientati in Liguria: quello del monte Manfrei, dove a ridosso del 25 aprile 1945 sarebbero stati uccisi da una brigata partigiana più di 200 persone tra marò del battaglione San Marco, civili e tedeschi. «Un episodio a dir poco nebuloso ma divenuto cavallo di battaglia di molti pubblicisti e agitatori revisionisti, se non tout court neofascisti»: tuttora infatti la brigata non è stata precisata, i duecento sono senza nome, le fosse in cui sarebbero stati seppelliti introvabili. Inoltre, molte delle persone che negli anni hanno costruito e poi amplificato la narrazione del cosiddetto “eccidio del Manfrei” sono le stesse che hanno costruito la narrazione della vicenda di Giuseppina Ghersi.