La santa crociata del “decoro” – intervista di Elfi Reiter a Wolf Bukowski su “Salto.bz”
Da Salto.bz
Guestblogger sul sito dei Wu Ming, collabora con Internazionale, e con Alegre sono già usciti altri due volumi a firma sua, Wolf Bukowski: La danza delle mozzarelle nel 2015 e La santa crociata del porco nel 2017. Di questo nuovo testo sul sito della casa editrice leggiamo: “Sotto la maschera del bello vi è il ghigno della messa a reddito: garantire profitti e rendite tramite gentrificazione, turistificazione, cementificazione, foodificazione.”
Noi l’abbiamo intervistato su alcuni temi generali che ci stanno a cuore da tempo.
Salto.bz: Il tuo nuovo libro La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro esce giusto in tempo per l’estate in cui sono maggiormente visibili le “indecorose” situazioni nelle realtà urbane?
Wolf Bukowski: In realtà il tema del decoro attraversa la politica italiana da decenni, e raggiunge il massimo della temperatura quanto più viene alimentato dall’alto: oggi Salvini, ieri Maroni o Minniti.
Interessante il binomio tra “decoro” – l’estetica della città – e “sicurezza” – e quindi le paure nelle città, dettate dall’alto. Quale il filo di connessione?
Il nesso origina nella teoria delle finestre rotte, la teoria oggi egemone – anche se poco conosciuta – sul tema della sicurezza urbana. È una teoria del tutto priva di fondamento, e smentita da un gran numero di studi, che lega il disordine e i “comportamenti disordinati” (ovvero il cosiddetto degrado) alla criminalità. In realtà, questa teoria è un pretesto per costruire città ripulite dalla vista dei poveri e del conflitto sociale, ripulite dalla vita stessa, in nome della messa a profitto e della turistificazione.
Leggendo tra le righe, mi vengono in mente articoli tuoi anche precedenti in cui denunci questo dato di fatto, ad esempio, la stazione di Milano. Ce ne parli?
Nelle stazioni e nelle ferrovie la trasformazione di cui sopra avviene come in un piccolo laboratorio. Si perde di vista lo scopo, ovvero il trasporto pubblico e la realizzazione della libertà di movimento, e vi si sostituisce la necessità di fare profitto, sia con l’esercizio ferroviario che con la messa a reddito degli immobili di stazione. Si producono così orrendi mostri urbani in cui i servizi essenziali (biglietteria, assistenza ai viaggiatori, sala d’attesa) sono ridotti quasi a zero perché ogni angolo utile ospita un negozio di vestiti, di cibo fintamente “tipico” o di gelati o qualsiasi cosa, in una superfetazione commerciale che identifica i luoghi della città, e della vita, con i luoghi del profitto.
Quali sono stati i punti affrontati nel dibattito a Bolzano? Nel corso delle presentazioni del libro, hai notato differenti ricezioni nelle città? diversi punti focali?
Ogni città ha i suoi problemi, ma in fondo essi – soprattutto il modo in cui diventano, appunto, “problemi” – sono riconducibili alla stessa matrice. Prima c’è l’enfasi su qualche episodio, poi questa enfasi diventa la prova stessa del “degrado”, e ben presto il problema del “degrado”, che spesso non esiste, diventa imprescindibile nel dibattito locale. Ecco, credo che bisogna far saltare questa catena risalendo alla sua prima origine, ovvero all’enfasi smisurata, altrimenti essa contamina ogni discorso successivo.
Tutto è stato reso possibile dalla rimozione del concetto di classe, al punto che destra e sinistra si sono buttate nelle politiche del cosiddetto “decoro” senza accorgersi poi di aver virato entrambi verso destra, in quella “pulizia”, un termine che è legato a un non lontano periodo storico del secolo scorso. Quali segni ci vedi?
La rimozione del concetto di classe fa sì che provvedimenti classisti, ovvero che colpiscono chi appartiene a una classe povera e impoverita, non siano riconosciuti come tali; e la rimozione del razzismo e del passato coloniale fa sì che neppure provvedimenti razzisti non siano riconosciuti come tali. La persecuzione dei venditori ambulanti, per esempio, è una prassi che riassume entrambe queste caratteristiche e viene portata avanti sia dalla destra che dalla sinistra da anni, con eguale, e a mio parere disumana, enfasi.
Nel tuo libro citi le ordinanze da “tolleranza zero” del sindaco di New York Rudolph Giuliani, ma anche alcuni in Italia non erano e non sono da meno… ricordo quello di Treviso di parecchi anni fa ormai, che tolse le panchine onde evitare che anche migranti ci si sedessero sopra. Come hai fatto la ricerca?
Selezionando gli elementi più comuni e ricorrenti, ma anche rinunciando a ogni vocazione enciclopedica. Mi interessava di più riconoscere le costanti di tutti i provvedimenti per il decoro, piuttosto che farne l’elenco. Per avere un elenco aggiornato basta aprire un giornale, quello che manca, è capire il perché essi abbiano tanta presa.
Ovviamente c’è una bella differenza tra un “ambiente pulito anonimo” e un “ambiente pulito animato”, dove l’attenzione va al rispetto per se, per gli altri e per l’ambiente, tutelandone le caratteristiche, senza tuttavia escludere nessuno. In che modo hai tenuto conto del “rispetto per l’ambiente” nel tuo libro?
L’ambientalismo deve guardare alle grandi condizioni di produzione e di distribuzione, non ai micro-comportamenti. Per esempio: c’è stato un lavorio legislativo di anni e anni per spingere i locali, la ristorazione eccetera, verso quello spreco di risorse smisurato che è l’ “usa e getta”. Usa e getta le stoviglie, i contenitori, le posate, e non importa se siano bio-compostabili o meno: sempre spreco è. E ora, anziché fermare quello spreco con lo stesso impegno legislativo e – perché no? – con la leva fiscale (rendendo quindi più conveniente il riuso dei contenitori), si finge che il problema sia il decoro e la buona educazione e cioè dove ognuno butta quei contenitori. Un problema di economia e di sistema viene ridotto, fittiziamente, a problema individuale. In mezzo ovviamente c’è anche il profitto delle aziende di smaltimento rifiuti, nel frattempo privatizzate. Ecco: questo è un buon esempio di come la privatizzazione distorca il discorso pubblico, e di come il decoro sia ideologicamente funzionale alla privatizzazione, e cioè al non mettere mai in dubbio il dogma neoliberista.
Politica securitaria vs politica umanitaria, già in un tuo contributo su Internazionale avevi analizzato l’erigersi dei “gate” come accessi ai binari nelle stazioni di Milano e di Roma, ufficialmente per controllare i biglietti ma ufficiosamente per questioni di sicurezza. Dove vedi altri segnali analoghi?
Ovunque il decoro, o anche il rispetto della legge – laddove “la legge” viene vista come un feticcio astorico e immodificabile – prevale sul necessario riconoscimento dell’umanità dell’altro.
Che impressione ti ha fatto venire a Bolzano, di cui avevi già scritto all’insegna della Barbarie da combattere, ma non quella cui molti penseranno, ossia i migranti nel parco della stazione, quanto quella rappresentata dai germanici in epoca fascista, i barbari che andavano acculturati, secondo la famosa scritta incisa sul Monumento della vittoria eretto negli anni venti del Novecento?
Mi fai pensare che in quella scritta è presente anche il concetto di “educazione”, esercitato dai sedicenti civilizzati (cioè gli italiani) nei confronti degli “altri”, ovvero i barbari (Hinc ceteros excoluimus lingua, legibus, artibus). Nel dare al mio libro il titolo di La buona educazione degli oppressi non ci avevo pensato, ma questa è l’ennesima prova di come il concetto di educazione venga usato nel razzismo, sia nel razzismo legato all’annessione di territori, sia in quello esercitato nei confronti di chi arriva in un territorio, come oggi i migranti. Il concetto di educazione va maneggiato con cautela, esso è tutt’altro che neutro. Tra l’altro, poi, il potere che ci invita a partecipare a uno sforzo collettivo per “educare” gli altri, e cioè a renderli “decorosi”, sta anche – e talvolta soprattutto – educando “noi” a subire passivamente le sue pretese.
Wolf Bukowski, il tuo nome, di primo acchito mi fa pensare a uno pseudonimo riferito alle lotte contro il lupo (=Wolf) e a situazioni poco decorose per colpa di alcolismo diffuso (=Bukowski con riferimento al famoso Charles, poeta e scrittore). Che ne dici?
Non ci avevo mai pensato, potrebbe essere divertente, in effetti i miei nomi – che sono veri – si prestano a varie divertenti interpretazioni. Sui social vengo talvolta accusato, con grande provincialismo, di “nascondermi dietro a uno pseudonimo”, cosa che non ritengo peraltro affatto condannabile, e che magari per qualcuno è pure necessario per situazioni personali. Ciò che è importante, è ciò che si dice e come lo si argomenta, non la firma, vera o falsa che sia, che si appone in calce.
Come hai iniziato la tua attività di blogger?
Negli anni zero, con l’esigenza di raccontare la cementificazione della zona in cui vivo, la provincia bolognese. Non so se l’ho mai fatto pubblicamente, quindi colgo l’occasione per ringraziare Simona Vinci, che mi leggeva su qualche mailing list, per avermi spinto a scrivere su un blog che parlava, appunto, di cemento e di spazio pubblico.
La tua attenzione è da sempre per gli outsider, da dove nasce questo interesse?
Forse dalla sensazione che basta poco, nella vita, per trovarsi dalla parte degli esclusi, degli indecorosi. Ricordarselo sempre, credo che aiuti a cambiare la prospettiva.