Le scimmie in fabbrica e gli operai sugli alberi – Claudio Panella su “L’indice online”
L’autunno porta una nuova serie di uscite saggistiche e letterarie di grande interesse per chi ha a cuore quella narrativa capace di esplorare tanto l’interiorità dei soggetti quanto l’esteriorità materiale dei gruppi sociali che condiziona ogni soggettività. Un’attenzione particolare alle autorappresentazioni delle subalternità di classe caratterizza Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class (Minimum Fax, 2022) dello scrittore Alberto Prunetti e Melanconia di classe. Manifesto per la working class (Atlantide, 2022) della poetessa e insegnante Cynthia Cruz, apparso negli Stati Uniti appena un anno fa. La sua traduttrice precisa: “Si è preferito lasciare l’espressione inglese working class, ormai largamente utilizzata anche in italiano, in quanto (…) include tutti i lavoratori precari e sottopagati di qualsiasi genere, compresi i docenti universitari”; e difatti la usa da tempo Prunetti rinviando alla “nuova classe operaia (più femminilizzata, impiegata nei servizi)”, ovvero a “una classe instabile e in continuo movimento. Una classe che per esistere ha bisogno di crearsi un proprio immaginario”.
Secondo Cruz, oggi la working class è composta “di figure simili a spettri” che si muovono “fra i mondi”, spesso invisibili. Prunetti afferma efficacemente nell’Incipit del suo libro: “Uno spettro si aggira nel mondo dell’editoria”, e quest’“ospite indesiderato” è “il fantasma dell’immaginario latente della vecchia e della nuova classe lavoratrice” che, “come ogni rimosso, perturbante, buttato fuori dalla porta della cultura alta rientra dalla finestra”. Le questioni del rimosso e dell’immaginario collettivo da rifondare sono quindi centrali.
Da un lato, perché una storia plurisecolare di scritture proletarie testimonia quanto narrare la propria subalternità sia una pratica diffusa, sotterranea, in grado di emergere con forza politica e poetica solo in determinati momenti storici: dai movimenti proletari svedesi o francesi degli anni venti-trenta ai romanzi operai britannici dei cinquanta-sessanta; dall’odierna letteratura operaia cinese di Picun alle voci non bianche, migranti, queer che stanno affiorando a ogni latitudine. D’altro canto, però, per rifondare un immaginario può non essere sufficiente “rubare” mezzi e forme di espressione alla cultura borghese (qui Prunetti ragiona sulla scorta delle riflessioni femministe di Audre Lorde, Adrienne Rich e bell hooks) e ciò è particolarmente vero giacché siamo immersi in una propaganda continua dei valori della classe media, che consuma più che produrre. In tale contesto, scrive Cruz, “il soggetto proletario non ha più un luogo di appartenenza”. Tanto più se, proprio a causa della sua sete di emancipazione, chi nasce nel proletariato se ne allontana tramite lo studio senza tuttavia avere pieno accesso ai privilegi delle classi superiori, scoprendosi fatalmente estraneo a entrambi i mondi.
È questa la figura del/la “transfuga di classe”, sofferente la “sindrome dell’impostore” cui diedero voce già la letteratura proletaria d’inizio Novecento, gli studi di Raymond Williams e poi Elena Ferrante, Didier Eribon, Édouard Louis e la Nobel Annie Ernaux. Il volume di Cruz è un racconto intimo e documentato su tale condizione esistenziale, un’autoanalisi di quella “melanconia che nasce quando si abbandonano le proprie origini working class” pur continuando a vivere in una società in cui la maggioranza fatica a sopravvivere. Si tratta in molti casi di persone razzializzate e non conformi ma per Cruz, “in realtà, tutti gli appartenenti alla working class condividono la medesima lotta contro l’oppressione della classe dominante”, pure chi si nasconde cercando di “passare per borghese” con un contratto d’insegnamento universitario che dà un orizzonte di sicurezza economica di pochi mesi; o chi racimola un salario con le traduzioni a cottimo, come il giovane Prunetti, e altri lavori culturali.
Anche in Non è un pranzo di gala si auspica di identificare in ottica intersezionale i fondamenti dell’appartenenza di classe e l’origine delle diseguaglianze che la letteratura industriale del Novecento o la narrativa del precariato successiva non hanno saputo sviscerare in modi originali, riscattando quelle soggettività simbolicamente uccise dal neoliberismo “ossia del capitalismo che non nomina se stesso” senza soccombere dal punto di vista artistico all’assimilazione borghese. Se Cruz scrive con l’intento di “localizzare l’oggetto perduto e amato, quell’arto fantasma, e così facendo (…) riportare in vita la working class”, secondo Prunetti la sfida decisiva è “raccontarsi dall’interno della classe, con le nostre parole, per non farsi raccontare dagli altri”. Per questo, grazie alla lunga attività di editor, l’autore toscano ha concepito una sorta di “manifesto di scrittura” per aspiranti penne working class. Tra le raccomandazioni principali, quelle di evitare approcci vittimari, dosare accortamente un umorismo di contrasto alla drammaticità di certe situazioni, moltiplicare punti di vista obliqui, narrazioni ibride, usi antiretorici della lingua, meglio ancora se in forme sperimentali e allegoriche, raccontare i disastri ambientali e non solo le parabole di singoli.
Qualche esempio? Per fortuna non ne mancano, a ben guardare. È da poco tornato in libreria lo storico “romanzo-memoir-pamphlet” Tuta Blu (1978) scritto dall’operaio Tommaso Di Ciaula (1941-2021) e ora ristampato nella collana “Working class” di Alegre curata proprio da Prunetti. La riedizione è arricchita da riproduzioni di immagini e lettere che documentano anche la storia editoriale del libro (proposto a Garzanti e poi accolto nei Franchi Narratori di Feltrinelli, con la prefazione di Paolo Volponi) divenuto un bestseller in Germania (Est e Ovest), Francia, Urss, Messico. Ebbene, il testo supera senz’altro la “prova Prunetti” per diversi parametri, dalla denuncia dell’industrialismo eco-incompatibile evidente già nella Puglia dell’epoca, alla vena allegorica con cui Di Ciaula rammemora uno stato di natura inconciliabile con la fabbrica (“Questo proporrei ad Agnelli: le scimmie in fabbrica e gli operai sugli alberi”), mescolando registri non senza ironia. Tra le innumerevoli citazioni possibili: “Certe volte sul lavoro canticchiamo per tenerci allegri. Non per allegria, ma per rabbia, come dice la famosa favola dell’uccello in gabbia. Altre volte cantiamo a squarciagola, almeno per sovrastare il rumore infernale delle macchine. Si canta di tutto: stornelli piccanti, canzoni strappacore napoletane, Bandiera Rossa, ma quest’ultima, almeno per quanto mi riguarda, con poca convinzione, negli ultimi tempi”; al punto che nella versione cinematografica diretta dal tedesco Florian Furtwängler, Tommaso Blu (1986), il protagonista Alessandro Haber declama al tornio un medley di canzonette in cui spunta pure una strofa di Faccetta nera. Se non è “umorismo di contrasto” questo!
Un altro esempio, mirabile prosimetro innervato di intertesti poetico-musicali appena uscito in traduzione italiana, è Alla linea (Bompiani, 2022) di Joseph Ponthus (pseudonimo di Baptiste Cornet 1978-2021), prematuramente scomparso e tra coloro cui Prunetti dedica il suo saggio. Fin dalle prime pagine, il carattere “sperimentale” non pregiudica l’ironia del racconto di come l’autore, laureatosi senza fare il salto di classe, diventa operaio nella lavorazione di pesce e carne della filiera agroalimentare bretone: “All’agenzia interinale mi chiedono quando posso cominciare / Tiro fuori Hugo la mia solita battuta letteraria e scontata / ‘Be’ domani all’alba nell’ora in cui biancheggia la campagna’ / Mi prendono alla lettera attacco il giorno dopo alle sei del mattino”. E poi, al pari di Di Ciaula, per resistere all’incalzante susseguirsi di gamberetti (“So che la prima occorrenza della parola gamberetto è in Rabelais”) e tofu (“E tu lator di schifo”), il narratore si fa forza cantando. Al ritmo di Trenet dai “geniali ritornelli abracadabranti”, Brel, Brassens ma anche Johnny Hallyday e Vanessa Paradis alternati a Ronsard o Apollinaire, Ponthus trova un “linguaggio nuovo” per cogliere la “verità industriale” (come auspicava Vittorini) oltre che denunciare puntualmente i dispositivi di controllo e frammentazione della classe operaia interinale contemporanea.
Da un altro orizzonte linguistico-culturale, l’uruguaiano Carlos Liscano narra in Verso Itaca (Edizionidellassenza, 2022) l’esperienza del margine in modo terribilmente esemplare: il romanzo non è un tipico nóstos bensì uno sprofondo nell’esistenza da “meteco” di un emigrato dal SudAmerica in Svezia, dove lavora in ospedale psichiatrico (“luogo in cui si viene messi quando non ci si riesce più a entusiasmare per un turno di otto ore per quarant’anni […] entusiasmo o manicomio, è la legge della vita”), che approda poi a Barcellona tra derelitti e prostitute, in totale indigenza. Con acume analitico e ironia che non nasconde ma svela, Liscano disegna tutto l’assurdo delle diseguaglianze sociali che ti riducono a “un niente in solitudine, non condiviso. Inutile niente”.