L’Inghilterra operaia uccisa dal thatcherismo. Angelo Ferracuti su “La Lettura”
Angelo Ferracuti – La Lettura del Corriere della Sera – 5 maggio 2024
In Come ho ucciso Margaret Thatcher di Anthony Cartwright (traduzione di Alberto Prunetti, Alegre) c’è molto del suo mondo working class, quello di Dudley, nel Black Country, dove prima di fare lo scrittore ha lavorato in fabbrica, in un impianto di inscatolamento carni, e in diversi pub, così come al mercato di Old Spitalfields. Nel romanzo siamo nel pieno degli anni Ottanta in una famiglia operaia laburista inglese che vive sulla propria pelle gli effetti delle politiche della Lady di Ferro: chiusura delle fabbriche, difficoltà di molti lavoratori a sbarcare il lunario, vita di stenti e sussidi. Chi ricorda e racconta con rabbia e tenerezza in un doppio flusso di memoria è Sean Bull, bambino di nove anni all’inizio del romanzo, adulto e padre al presente, in questo doppio punto di vista tra ieri e oggi, uno emotivo ed empatico e l’altro a distanza di anni più riflessivo e distaccato.
Ne abbiamo parlato con l’autore.
Il suo è un romanzo di formazione sociale, c’è l’apprendistato alla vita del protagonista, ma anche gli effetti delle politiche thatcheriane su un’intera comunità di lavoratori. Come è nata l’idea di scrivere il libro e che cosa hanno rappresentato quegli anni per persone cresciute nelle aree industriali inglesi?
«Ho già scritto due romanzi sul mondo dei lavoratori, questo è il terzo, tutti ambientati negli anni Ottanta, un cambio di stagione storica molto sentito dai personaggi che descrivo. In passato, prima dell’arrivo della Thatcher, c’erano forte solidarietà e lotta comunitaria nelle fabbriche, spazzate via in quel periodo. I lavoratori hanno dovuto affrontare da soli cambiamenti drammatici. L’idea di raccontare la storia all’interno di una famiglia è venuta dalla storia che ho vissuto nella mia; perciò, il mio è anche un libro autobiografico, almeno come punto di partenza. Poi per sviluppare il romanzo mi sono ispirato molto alla tradizione letteraria inglese degli anni Cinquanta e ai film di Ken Loach, con una forte focalizzazione su un personaggio politico realmente esistito, una novità nella storia letteraria del mio Paese. Anche se è stata eletta democraticamente, il peso della Thatcher sulla vita di tutti i cittadini inglesi, compresi ragazzini di dieci anni, è stato così forte, così autoritario, così capace di cambiare talmente la nostra idea di futuro, che è molto simile a quello dei dittatori latinoamericani».
Come mai ha scelto questo doppio flusso di memoria del protagonista bambino in presa diretta sui fatti e adulto a distanza di anni?
«Sean, il protagonista, è un ragazzino; per questa ragione non poteva far emergere tante zone grigie o tante sfumature; vede le cose come le sente istintivamente in presa diretta, non ha molta consapevolezza, nessuna maturità, mentre da adulto ha una capacità critica e teorica maggiore; ma, ironicamente, poi si rende conto che le sue sensazioni primarie di bambino erano proprio quelle giuste, la sua consapevolezza da adulto non fa che rafforzare le sue prime impressioni, quando capisce che Margaret Thatcher è come un diavolo, qualcosa di minaccioso per loro».
È molto forte la figura del nonno Jack, coscienza politica della famiglia. Per esempio, quando scuote la testa dopo avere ascoltato la premier in televisione e dice: «Più efficienza. Ecco le parole che usano. Ma vuol dire più lavoro in meno tempo. E la prossima volta sarà più lavoro in meno tempo per meno soldi e con anche meno operai». È la sentenza definitiva del vecchio laburista che al contrario dei figli non ha votato per i Tories e canta «The Red Flag», l’inno del partito.
«Sì, è proprio così, lui è un uomo nato negli anni Venti del secolo scorso in una famiglia molto povera, ha vissuto la Seconda guerra mondiale, ma poi dagli anni Cinquanta sino alla fine degli anni Settanta ha conosciuto il periodo di emancipazione e progresso sociale delle classi lavoratrici con la speranza di una vita migliore, che poi l’arrivo della Thatcher mette in crisi. In lui c’è anche questo forte contrasto tra un bisogno di ordine e di prendersi cura degli altri all’interno della famiglia e il mondo senza regole creato dalle politiche neoliberiste fuori, dove prevale l’individualismo e le forze del mercato sono selvagge. C’è una frattura tra quello che sognava e quello che gli tocca vivere nei suoi ultimi anni di vita».
Il protagonista, che non ha nessun desiderio di diventare «ceto medio», ha una forte e radicata appartenenza di classe. Tutto questo non può apparire un po’ nostalgico?
«Il mio è volutamente un romanzo working class. Negli anni Sessanta e Settanta i lavoratori della classe operaia specializzata e ben retribuita non avevano bisogno di desiderare di passare alla middle class, erano molto orgogliosi di quello che avevano ottenuto con le dure lotte sindacali di quel periodo. C’era un forte senso di identità e comunità, che è proprio quello che il thatcherismo ha cercato di spezzare, soprattutto nelle zone operaie. Quando poi tutto è cambiato e le cose sono peggiorate ci sono state due diverse nostalgie in competizione tra loro, quella della destra per la Brexit e quella della sinistra per gli anni delle grandi conquiste: tutto ciò ovviamente impedisce di essere lucidi sull’analisi del presente».
Come è stato accolto il romanzo in Inghilterra?
«Questo più degli altri è stato letto come un libro politico, probabilmente anche il titolo provocatorio ha favorito questa analisi; naturalmente i critici di sinistra sono stati più generosi nel recensirlo, quelli di destra molto meno. Con questo romanzo non penso di avere cambiato il pensiero di chissà quante persone, comunque è un privilegio degli scrittori quello di registrare un sentire, un sommerso che non è direttamente politico, ma proprio della letteratura: chi scrive non è contento di come vanno le cose».
Il suo è un romanzo che racconta una sconfitta storica, ma ha anche la forza di compiere un ribaltamento dell’immaginario. È così?
«È una lettura che mi piace molto, spero sia il sentimento principale che rimane ai lettori dopo avere letto il libro, questo ribaltamento attraverso l’immaginazione di una dura sconfitta, lacerante, che si è sentita sulla pelle dei lavoratori: la distruzione di una comunità avvelenata dall’individualismo. Le fabbriche delle zone industriali inglesi dove si costruivano oggetti materiali sono state sostituite dal nuovo modello di capitalismo finanziario dei beni immateriali. Questo è quello che gli scrittori possono fare, creare la possibilità di una rappresentazione diversa della realtà, diversa da quella delle classi dominanti».