Lotta di classe tra le ciminiere. Giosuè Calaciura (da Il Sole24ore)
Le mani degli operai trattengono un grumo di scarti minerali e la sapienza del mondo. Le mani degli operai, per osmosi così concrete e materiali, hanno laboriosità trascendenti, umanizzano, danno carne alle idee. Le mani degli operai, ancora giovani e in forze, cominciano a tremare. Uno a uno cadono i denti, nelle pupille la fiamma ormai perpetua della saldatrice annebbiala vista, i boati dei cantieri spengono l’udito. Silicosi e amianto hanno fatto breccia. L’operaio torna uomo nell’agonia della sua finitezza. Una fibra inalata s’incista nei polmoni. Ucciderà fra venti, trenta anni. Il tempo di costruire, con le mani, una vita, fare figli, immaginare un futuro che si rivelerà troppo breve. Alberto Prunetti, scrittore, traduttore, editor in Amianto. Una storia operaia racconta la vita e la morte del papa Renato, élite metalmeccanica, specializzato saldatore e tubista. Renato è cresciuto all’ombra delle ciminiere e dei fumi della Solvay, in vista dei lidi di Castiglioncello, nei luoghi dove Dino Risi immaginò che in un sorpasso, Gassman e Trintignant avrebbero infranto il boom economico.
Renato era un “trasfertista”, installava nuovi impianti, revisionava i vecchi. Acciaio, petrolio, chimica, da Novara a Napoli, da Torino a Mestre, da Taranto a Priolo, la geografia della modermzzazione spesso velenosa e oggi in bilico tra occupazione, produzione e integrità del futuro. L’operaio Renato Prunetti contribuiva a fare correre l’industria italiana nell’urgenza di una competitivita sempre più globale. Così urgente da costringerlo alla saldatura a pochi centimetri dalle cisterne del petrolio, coperto da un telone grigio per evitare che le scintille dell’elettrodo innescassero il fuoco nella raffineria. Un telone grigio amianto, un anticipo di sudario.
Quello di Alberto Prunetti è un documento familiare allargato alla memoria più vasta della collettività che del lavoro manuale aveva fatto vanto e privilegio ma anche difesa di diritti e dignità. Una etno-antropologia proletaria nella città fabbrica, reperto letterario della scommessa industriale più recente che è già archeologia, reportage sullo spaesamento dell’Italia negli ultimi 60 anni: l’abbandono dei campi per fare spazio agli impianti e fornire braccia, trascinando nell’urbanizzazionei riti della terra. La nonna di Alberto aveva una voliera a Follonica, come si usava in campagna. Allevava fagiani, nonostante il divieto municipale di tenere animali da cortile in città. Il giorno che scapparono furono abbattuti a fucilate dal vicinato che non aveva rinunciato alle pratiche bracconiere.
Amianto è un romanzo di classe, appuntito nel livornese fulminante, ruvido nell’analisi politica dell’avventura operaia. Sotto la crosta terrosa e amara del racconto l’ironia e la tenerezza di un figlio che prima ha tentato la scorciatoia del calcio professionista allenandosi sin da bambino nei campi contaminati delle fabbriche dismesse, poi ha fatto l’università secondo il desiderio del padre – di tutti i padri operai – che voleva strappargli di dosso il destino della tuta sporca di polveri e grassi nocivi. Un figlio che oggi è uno dei tanti «lavoratori cognitivi precari», nuovo, stremato, proletariato senza identità.
Non c’è stata redenzione di classe. Da Renato al figlio Alberto sì è consumata la sconfitta di un’aristocrazia etica che contrapponeva il lavoro manuale, il “sapere fare”, al lavoro intellettuale, interpretato, forse per frustrazione, forse per sovrappiù ideologico, come parassitario e sterile. Le “cose” costruite con le mani rimangono memoria concreta, ricchezza di legami, eredità orale fatta di insegnamenti, parole in dialetto, metafore locali che nel legame mitico tra padre e figlio diventano universali. Le mani e gli attrezzi di papa Renato erano anche strumenti istintivi e miracolosi di conoscenza. Alberto bambino esplorò la sua prima eclisse di sole attraverso i vetri brumati della maschera da saldatore del padre. Pagine struggenti elencano quanto Renato ha lasciato al figlio: le “cose”, la loro anima e un inconsolabile sentimento di ingiustizia. Le “cose” prendono forma nell’appendice fotografica, gli attrezzi, il banco dell’officina, gli appunti, i volantini scritti a mano, le “invenzioni” del riuso perché nella cultura operaia non si butta via niente: alle “cose”, diversamente dagli uomini, si può offrire un’altra opportunità.