Produrre per nutrire, una relazione incerta – Francesco Tommasi da il lavoro culturale
Nel dibattito contemporaneo sul cibo compaiono concetti come sovranità, indipendenza, globalizzazione, finanziarizzazione, che sono oggi presenti in molti altri ambititi politici e sociali. Questi termini trovano terreno fertile all’interno del mondo dell’alimentazione e mobilitano discorsi e azioni spesso contrastanti.Due libri di recente uscita, I signori del cibo di Stefano Liberti e La santa crociata del porco di Wolf Bukoski, hanno come minimo comune denominatore proprio l’analisi di questi termini. I testi affrontano – con taglio, punto di vista e argomentazione diversi – i processi di produzione che sottostanno alle filiere alimentari principali. Inoltre analizzano le narrazioni – funzionali al marketing anche di carattere identitario – mobilitate a sostegno dell’attuale sistema di produzione alimentare.
La santa crociata del porco si concentra sulla carne di maiale e il suo consumo, per svolgere una complessa etnografia della rete analizzando le retoriche giornalistiche, le forme di marketig alimentare, i sistemi di certificazione religiosa, ripercorrendone anche le tappe storico culturali.La carne di maiale come pretesto viene veicolata all’interno di numerosi oggetti social (post, meme, video) per innescarsi in contesti spesso di carattere identitario e razzista: il panettone alla pancetta di Salvini o le torture per mezzo della carne di maiale cruda inflitte nei Cpt fino alle più note teste di maiale recapitate ad associazioni religiose e luoghi di culto. Questi gesti manifestano un piano evidente di contraddizione e schizofrenia. Ovvero il tentativo grottesco di costruzione di un’identità veicolando un oggetto: la carne di maiale, completamente inserita nei processi di produzione industriali e globalizzati.
Una distorsione che Bukowski rintraccia anche nell’espandersi delle certificazioni religiose sugli alimenti. Kasher e halal, come nuovi marchi bio capaci di attrarre grosse fette di consumatori benestanti e come vera e propria politica sociale, in grado di determinare i nuovi interessi di mercato, i sistemi di produzione, le forme di commercializzazione e i consumatori ideali. La mozzarella di bufala Dop certificata halal, più che un fantasioso strumento di integrazione, appare come un ulteriore adeguamento alle logiche di mercato che necessitano di alimenti standard e scambiabili su scala globale.La più forte delle tesi di Bukowski è che nell’attuale sistema industriale e globalizzato di produzione del cibo: “il cibo sano è cibo per ricchi”. All’interno di questa affermazione avviene un ribaltamento sostanziale di quella che è stata una concezione culturale radicata nel tempo, la quale connetteva ricchezza e alimentazione tramite la quantità e connotava la povertà proprio per le mancanze alimentari.L’idea di produrre cibo per nutrire è una rivendicazione non più scontata per le grandi aziende alimentari da quando i temi della salubrità del cibo e delle conseguenze ambientali dei metodi di produzione si sono imposti nel dibattito fra consumatori.
I signori del cibo di Stefano Liberti affronta da un punto di vista storico ed economico alcune fra le maggiori filiere alimentari industriali, definendo “aziende locusta” quelle che sorreggono attualmente la maggior parte della distribuzione del cibo a livello planetario, raccolte sotto l’egida morale del produrre per sfamare i futuri nove miliardi di cittadini del mondo.Carne di maiale, soia, tonno e pomodoro sono filiere che coinvolgono integralmente o in parte la maggioranza dei prodotti di un supermercato qualunque. Produzioni concentrate in un numero di aziende estremamente contenuto e sorrette economicamente dai gruppi finanziari tradizionali, incentivati dalle politiche economiche nazionali e internazionali.I processi di gestione attivati da queste aziende nei confronti dei produttori e lavoratori richiamano alla mente terminologie desuete come mezzadria e latifondo. Concetti che, se aggiornati alla complessità contemporanea, ben descrivono il sistema di produzione alimentare industriale.
“Mezzadria contemporanea” potrebbe essere definita la relazione che coinvolge gli allevatori di suini americani e i loro Cafo (Concentrated Animal Feeding Operations): fattorie ad alta concentrazione di animali. In questo caso si tratta di un vero e proprio modello economico già applicato ad altre forme di allevamento come quelle dei volatili. Aziende come la Smithfield Foods, prima produttrice al mondo di carne di suino, in cambio del lavoro e del terreno fornisce all’allevatore la tecnologia e le strutture per la realizzazione di un allevamento intensivo, immettendo giovani capi per l’ingrasso e prelevandoli al momento della macellazione. Gli allevamenti in questione, diffusi in America, Cina e Europa, appaiono come giganteschi capannoni di fronte a laghi di liquami e deiezioni dai colori più vari.Una delle contropartite più evidenti è la questione dello smaltimento dei rifiuti di questi modelli industriali di produzione. Spruzzati legalmente nelle aree circostanti gli allevamenti o confluiti in fiumi e laghi per accidentali inondazioni, i liquami prodotti dai Cafo costituiscono una delle principali cause di malattie fra gli addetti ai lavori e gli abitanti delle zone coinvolte, oltre a causare un sensibile peggioramento di tutti gli ecosistemi naturali su cui insistono.
Di latifondo potremmo invece parlare in relazione ai sistemi produttivi che riguardano la soia e il pomodoro. Il primo prodotto coinvolge da solo buona parte delle produzioni industriali, riuscendo a collegare i più diversi modelli alimentari contemporanei: dai prodotti derivati per vegani, all’alimentazione di animali da carne.Primo produttore al mondo è il Mato Grosso brasiliano, dove aziende con estensioni doppie rispetto all’area metropolitana di Roma coltivano soia a perdita d’occhio per rifornire principalmente allevamenti intensivi situati in America del nord e in Asia.Anche lo Xinjianng, regione all’estremo ovest della Cina, potrebbe essere definito come un enorme latifondo del pomodoro. Aziende inizialmente legate al governo cinese con lo scopo di colonizzare e sviluppare l’agricoltura della zona si sono trasformate in delle vere e proprie Corporation che producono quasi un terzo del pomodoro lavorato mondiale.
Come nel caso della soia, il pomodoro cinese non rifornisce le dispense delle città asiatiche ma, attraverso passaggi commerciali che vedono coinvolte anche numerose aziende italiane, finisce inscatolato e venduto nei mercati e supermercati africani.
Questi ed altri problemi – lo sfruttamento del lavoro che si trova quasi sempre nelle parti iniziali delle filiere in questione – sono inclusi nel basso prezzo di vendita dei nostri prodotti alimentari.La grande questione fra prezzo e valore dei beni alimentari risulta essere il nodo centrale delle letture in questione. In particolare emerge con forza la contraddizione interna alle filiere alimentari industriali che sempre più aderiscono ad una concezione del cibo come commodity.
Da un lato i prodotti alimentari sono caricati di valori come l’esperienza, la salubrità, l’identità, la tradizione, necessari alla costruzione di un prezzo più alto che si rivolge ad una fetta di consumatori “adatti” ad un’idea di capitalismo culturale. Dall’altro i processi industriali di produzione standardizzano e semplificano, riducendo a “materia prima” gli scarti e alcune categorie di alimenti in favore di un’alta scambiabilità, speculazione, trasformazione e circolazione a bassi prezzi.
Un gioco economico erroneamente considerato a somma zero: le perdite sociali e ambientali sono palesi e si manifestano in ogni punto di questa lunghissima filiera del cibo.
Da parte della critica comune la tendenza è di individuare quale di questo lungo processo sia il peggiore dei mali: le condizioni di sfruttamento dei lavoratori, gli allevamenti intensivi, il depauperamento degli ambienti naturali, le sofisticazioni alimentari. È forse necessario mantenere uno sguardo sulla complessità del fenomeno e abdicare a soluzioni parziali. Sempre più evidente è la necessità di un’inversione di tendenza, sostenuta da politiche agricole che non siano alla mercé di facili idee imprenditoriali, ma che riescano a ricostruire un vero dialogo fra città e campagna, una relazione ormai ridotta a linee autostradali ed alta velocità: terreno fertile per le grandi aziende locusta.
*Fonte: il lavoro culturale