Quel che mi resta di un sabba: una lettura di «Senza titolo di viaggio» di Filo Sottile – da “Cronostasi”
Da Cronostasi
Comincio con due precisazioni. La prima è che questo articolo è un’anomalia: l’idea del “quel che mi resta” è scrivere ciò che mi evoca oppure ho imparato leggendo libri, mio personale toccasana e rifugio, a distanza dalla fine della lettura. L’articolo di oggi col quale parlerò del saggio di Filo Sottile è nato nella mia testa già pronto, dal principio alla fine; aspettava solo alcune piccole rifiniture, era impaziente di uscire, non desiderava attendere l’ultima pagina.
La seconda è un chiarimento necessario. Ho l’onore di essere citato a pagina 232 dalla stessa Filomena. Ha trovato illuminante il pezzo sulla «Metamorfosi» di Kafka e mi ha chiesto la possibilità di pubblicare parte della mia riflessione. Sono felice che le mie parole, specie quelle nate dopo un periodo di forte dolore personale, abbiano trovato posto tra quelle di chi emancipa comunità oppresse. Specifico però che questo articolo né questa riflessione sono concordati con Filo: la mia è una schietta opinione personale, con ragionamenti personalissimi.
Conoscevo davvero poco dell’opera di Filo Sottile. Se dovessi scegliere con quali termini spiegarla, userei un ossimoro: è un monologo a più voci protagoniste che congiunge i rigori del teatro e del cinema all’immediatezza della filosofia punk. Questo sfocia nella praxis della cantastorie punk, o “punkastorie”, la cui guida è dettata da una «urgenza» specifica: gli errori, le stonature, gli impromptu, vengono scavalcati dalla necessità di «accompagnare una persona gravemente ferita al pronto soccorso» («La punk spiegata alla nonna», autoprodotto, p. 10). Chi sia questa persona, Filo non lo specifica né ha intenzione di rivelarlo in modo diretto, ma è evidente che non si tratta delle “creature mostre” di cui si fa cantrice ne «La mostruositrans» (edizioni Eris). Punk per Filo significa coloro la cui urgenza è di aiutare feriti a sopravvivere, ma il loro operato è esteso soprattutto a chi, dall’altro lato, restringe e soffoca secondo lenti distorte, convinto che non esistano alternative.
Filomena adopera il registro meta-teatrale del retroscena per mettere in chiaro il dramma quotidiano di una identità negata. Le «cinque lettere» per cui si batte diventano un pretesto non tanto per la catarsi personale tipica del teatro più classico, bensì per mostrare e chiedere alternative a una vita di miserie e sterilità creativa. Politicizzare il coming out significa, per Filo, formare trama e ordito che formano la coperta che copre chi temerà il freddo. È ben nota l’idea secondo la quale il destino inevitabile di molte persone trans* e queer sia quello di prostituirsi o di suicidarsi: giusto dunque fare rete, mostrare che è possibile vivere, ancora, con più forza.
La ricerca di una conferma burocratica di ciò che è sempre stato dentro di sé avviene con stacchi e inquadrature non dissimili, secondo me, dal flashback in «Assassini nati» di Oliver Stone; la voce è quella della «amara confessione» masiniana, graffiata e crudele quanto un grido disperato. Le tre strigi di gusto shakesperiano che punteggiano il monologo di Filo sono lì per una ragione. Nel «Macbeth» le streghe plasmano il destino inevitabile di rovina per ambizione, secondo la volontà di Ecate. Nel sabba di Filo, ora «something wicked» che giunge al cospetto delle strigi, ora donna comune al centro di un mondo in rovina, le strigi accolgono la metamorfosi già accaduta di una affinché sia garantita la libertà di mille altre crisalidi prossime alla schiusa. Il coming out è vita che sorge dopo l’accettazione di un rischio calcolato, semi che sbocciano durante una stagione di sofferenza, radici che si intrecciano nel fertile terreno dell’alleanza e del mutuo appoggio.
Il retroscena di Filo è una promessa: se il futuro non è scritto, il futuro può e deve essere migliore delle storie che sta raccontando, anche della propria. Sta qui la forza di «Senza titolo di viaggio»: un lungo racconto intorno al coming out, sul coming out, per il coming out.
Potrei descrivere «Senza titolo di viaggio» con altre parole che altri e altre avrebbero già usato nel tempo intercorso a leggere questa frase. Mi limiterò a riportare ciò che ho fatto mio dalle storie contenute nel volume. Questo post, d’altronde, è nato poco dopo la lettura di pagina 86, mi sembra giusto che renda onore ai suoi natali letterari.
Riflettendo sull’ennesima misura restrittiva passata come “tutelare” della presunta famiglia naturale, a ridosso di quelle restrizioni sociali volute dalla gestione politica della pandemia corrente, Filo scrive un passaggio che trovo limpido nel messaggio, lucido nella coscienza: la visione economia è diventata col tempo visione ontologica del quotidiano.
Il neoliberismo punta tutto sugli individui, sulla loro resilienza, la loro capacità di tirare la cinghia, serrare i denti, portare a termine i compiti assegnati, sacrificarsi. L’invito implicito è a fare la spending review delle relazioni, dei sentimenti, degli interessi, ottimizzare i tempi, tagliare i rami secchi: battere la strada conosciuta. Chi può starti vicino? Solo chi è naturalmente e tradizionalmente previsto che lo faccia[.] In prospettiva la promessa del paradiso neoliberale: una manciata di giorni all’anno di ferie, la capacità di spesa, la solvibilità, la rispettabilità sociale. Il terrore invece è che se questo sistema “naturale” crolla non ci sarà più argine alla solitudine, non ci saranno altri legami possibili.
Questo stralcio ha un’eco fortissima, vibra ancora dentro di me a distanza di settimane. Il lockdown, le chiusure, le restrizioni e i divieti hanno rafforzato questa idea di parsimonia degli affetti nel suo aspetto più crudele. Io lo vedo, Filo, quello che spieghi. Dove tutto viene chiuso, dove l’acqua viene seccata e la terra riarsa, Filo vorrebbe che fossero sparsi il seme e il polline di quelle nuove vite che hanno resistito e resistono ogni giorno. È la fiducia nell’alternativa che funziona a suggerire le parole, è quell’urgenza già evidente nella «Punk spiegata alla nonna» che guida la mano.
A me resta questo, del sabba di Filo: accogliere questo libro come un sacchetto di semi, spargerli prima dentro me, perché altri e altre possano capire quanto la vita abbia bisogno di fluire, soppiantando la sterilità forzata.