Radio Alice, non violenza, orti metropolitani – Girolamo De Michele su Doppiozero
Girolamo De Michele su Doppiozero
Per chi ha memoria o conoscenza dei conflitti sociali degli anni Settanta, il nome di Valerio Minnella richiama immediatamente la voce che, dagli studi di Radio Alice sotto assedio, nella notte del 12 marzo 1977 racconta in diretta l’irruzione della polizia in assetto antisommossa nei locali della radio; e a un certo punto, per rifiatare o cercare un contatto telefonico con gli avvocati, manda in onda il primo disco che gli capita sotto mano, dicendo: “Ecco qui Beethoven. Se vi va bene, bene, se no… seghe”. Anni dopo la registrazione dell’irruzione – una cassetta di quelle che si mettevano a punto infilandoci e ruotandovi una matita – riemerse, per poi finire nelle scene conclusive di Lavorare con lentezza, il film di Guido Chiesa sul marzo ’77 alla cui sceneggiatura parteciparono i Wu Ming. Era quasi inevitabile che quelle parole diventassero il titolo di questa sorta di autobiografia, narrata da Minnella a Wu Ming 1 e Filo Sottile (un’attivista che da anni collabora con i Wu Ming, molto presente sul loro sito “Giap”) nella collana delle edizioni Alegre Quinto Tipo diretta dallo stesso Wu Ming 1, dedicata agli Oggetti Narrativi Non Identificati, ai testi ibridi, non classificabili. E infatti questa narrazione fuoriesce dai canoni dell’intervista biografica romanzata – tipo Open di Andre Agassi, per capirci; ma non è neanche una classica intervista con un io narrante al centro del racconto: piuttosto, è un flusso narrativo che si dipana fra tre voci – con alcune inserzioni, come la stessa Alice radiofonica –, replicando quel flusso creativo che era il modo di essere dell’emissione radio di Alice.
Capita però che, posto che mai qualcuno sia una sola singolarità e viva una sola vita, ad alcuni sia dato di vivere molte vite, tutte meritevoli di essere narrate: è il caso di Valerio, che non è solo la voce narrante dell’assedio di Radio Alice all’indomani dell’insurrezione di Bologna scatenata dall’omicidio dello studente Francesco Lorusso. Molte le vite di Valerio Minnella, tutte attraversate da fili comuni: leggerle tutte fa comprendere che Radio Alice e il movimento del ’77 non sono funghi isolati spuntati al sole dopo una notte di pioggia, ma il frutto maturo di processi iniziati nel decennio precedente; e viceversa, che quei processi – il volontariato, le lotte antimilitariste, l’obiezione di coscienza – contenevano al proprio interno la possibilità non solo dei movimenti del decennio successivo, ma di molto altro che si è allungato fino al terzo millennio. Genova e il G8, ad esempio; dove una generazione ancora ingenua, “innocente” come direbbe qualcuno, scoprì con stupore una violenza dello Stato che per i più anziani era invece conosciuta. All’indomani della quale il Valerio Minnella che il 9 febbraio 1971 aveva firmato, assieme ad altri sette obiettori di coscienza una Dichiarazione collettiva di obiezione di coscienza in favore dell’istituzione del servizio civile scrive una lunga lettera pubblicata sul quotidiano Il Domani di Bologna. Quello stesso Valerio che, dopo aver contribuito alla nascita di radio Alice, e della Federazione Radio Emittenti Democratiche (FRED), contribuirà alla nascita delle Telestreet, creando nel 2002 la “tv di strada” OrfeoTv.
Nella Dichiarazione Collettiva gli otto obiettori scrivevano, fra l’altro: “La divisione del mondo in blocchi contrapposti e l’inserimento dell’Italia nella Nato fa sì che la difesa, se così la si può chiamare, dell’intera area geografica e politica dei paesi “coperti” dall’alleanza militare, sia affidata non già agli eserciti nazionali ma per intero alla macchina bellica della potenza guida, ovvero gli Stati Uniti, il cui armamento nucleare è in grado di assolvere questo compito, con la conseguenza però di causare la distruzione dell’umanità”. Parole di straordinaria attualità, in un frangente storico nel quale la guerra sembra essere ridiventata un valore, grazie alla bolla mediatica dei “facinorosi guerrafondai del Pensiero Unico Bellicista”; e per contro la parola “pace” sinonimo di viltà, o di altri epiteti presi pari pari dal lessico del militarismo fascista del Ventennio. Parole che già in quel 1971 avevano una lunga storia: basta pensare a Aldo Capitini, o a chi faceva riflessione critica sul pensiero di Gandhi e sulla sua satiagraha, “nonviolenza”, che non è un dettame divino né un dogma assoluto, ma “una scelta di metodo per il raggiungimento della giustizia”.
Alla scelta nonviolenta e all’obiezione di coscienza Valerio arriva partendo dalla sua esperienza nel movimento scoutistico, che lo porterà ad essere uno dei volontari all’indomani dell’alluvione di Firenze; e poi, dopo aver attraversato le prime esperienze del ’68 bolognese, nel Belice, dopo il terremoto. In un passaggio molto intenso, Minnella sembra quasi polemizzare con l’appellativo di “angelo del fango”: “Io di angeli non so niente. È arrivato uno e ha detto che avevamo la possibilità di andarci, chi si voleva aggregare? E io mi sono aggregato Non ero un angelo, ero uno spalatore e, come me, sono spalatori tutti quanti. Nessuno si è chiesto se quella cosa sarebbe stata importante per la civiltà, se fosse o meno patriottica. Ci hanno detto “spala” e noi abbiamo spalato”. Dopo tutto, il grosso del lavoro lo hanno fatto le macchine, non gli spalatori: “Ma non ha importanza. Non importa quanto fai, quello che conta è che se hai possibilità di fare qualcosa, lo fai”. Di nuovo l’attualità ricade su parole riferite, in apparenza, a eventi lontani: quella retorica del volontariato, delle popolazioni che si rimboccano le maniche perché “è nella loro natura” (sottintendendo che nella natura di altre, invece…). Valerio, invece, con lo spirito di quelle parole ha attraversato, sempre da “volontario”, cioè mai comandato da alcuno – padrone di niente, servo di nessuno, si potrebbe dire – tutta la sua vita. Non è una semplice sprezzatura: perché a che serve fare il volontario, magari spezzarti davvero la schiena con la pala in mano, se poi torni alla tua quotidianità nella quale contribuisci con la tua ignavia, o in modo consapevole, a reiterare quel mondo nel quale accadono per causa umana quelle catastrofi nelle quali vai poi a salvarti la coscienza con una settimana di volontariato?
Ecco: Valerio, questo mondo ha sempre cercato – con le armi della comunicazione, dell’intelligenza, e della nonviolenza – di combatterlo. Ed è così che, obiettore di coscienza, si ritrova dapprima in carcere: dove cerca, con metodi ingegnosi (fra i quali il vecchio inchiostro simpatico), di far filtrare all’esterno testimonianze di vita all’interno dell’istituzione carceraria. E poi, nel 1974, eccolo a fare servizio civile a Trieste, all’Ospedale psichiatrico guidato da Franco Basaglia, un uomo che non faceva la rivoluzione, ma era la rivoluzione: come sottolinea Filo Sottile, “il punto è che il lavoro di Basaglia parte da un convincimento che è principalmente terapeutico e in seconda battuta anche politico: le persone che hanno infermità e disagio psichico prima di tutto sono persone”. L’esperienza basagliana è anche un’esperienza di sofferenza, e di presa di coscienza della inadeguatezza del singolo di fronte a sofferenze che esistono, ma di cui la società non vuole riconoscerne l’esistenza. Nondimeno, di fronte alla constatazione che nella società neoliberale la sofferenza aumenta, mentre solidarietà e relazioni si corrodono, l’approccio basagliano costituisce un punto di vista altro dal quale guardare con spirito non rassegnato l’impoverimento e l’atomizzazione che generano dolore.
È tutto questo vissuto che infine precipita nel movimento del ’77, nell’esperienza delle radio libere, e all’interno di queste, di Radio Alice. Una dimensione collettiva, dove le singolarità si ricombinano nel flusso creativo senza alcun estetismo consolatorio: la pratica radiofonica non era un espediente per sfuggire la durezza della vita, ma uno strumento in più per una rivoluzione possibile che abolisse lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come si diceva allora. A partire dalle relazioni interpersonali, dalla rivoluzione qui e ora delle vite quotidiane: il personale che si scopre politico, la politica che si lascia attraversare dalla ricchezza delle vite personali. Ma anche: la convinzione che per non essere passivi rispetto ai media l’unica strada sia quella di diventare media, di essere comunicazione, di fare flusso creativo: che sia una radio libera o una tv di strada, o al limite un comitato per la preservazione degli orti metropolitani, o un progetto software ancora in fieri, ma che Valerio spera di riuscire a portare avanti. Ricordando una celebre battuta di Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Valerio dice: “ho sempre cercato di mettere qualità nelle cose che facevo. Non sempre ci sono riuscito. Ho fatto anche tante cazzate. Ma un po’ di cose che ho fatto rimangono”. Quella qualità è sempre stata interna a grandi o piccoli contenitori di differenze, alla “azione collettiva di un gruppo umano che ha scelto di lavorare insieme malgrado le diversità e che ha costruito qualcosa”: parole che possono fungere da messaggi in bottiglia per le generazioni che verranno, come auspica Wu Ming 1; ma anche, recuperare il ricordo di un passato che non è evocazione di ciò che è andato perduto ma, con Mark Fisher, nostalgia di un futuro mancato da costruire. Non importa se chi ha attraversato quegli anni sia caduto nella disillusione, o continui a distribuire gli stessi volantini di ieri: importa che quelle azioni siano state fatte, quelle vite siano state vissute, quelle esperienze esperite. E siano, oggi, narrate.