Recensione di Pino Cacucci alla prima edizione
“Sbagliare dalla parte giusta, gli anni Settanta dimenticati”
Di Pino Cacucci (da Liberazione)
Tra gli anni settanta e i primi anni ottanta oltre seimila persone finirono in carcere per attività “sovversive” legate a quella tragica stagione di lotte suicide che da una parte si chiamavano semplicemente “armate” e dall’altra, la parte dei fin troppo scontati vincitori, venivano bollate come “terrorismo”. Con un dilagante stupro del linguaggio, chi aveva commesso stragi o comunque coperto gli stragisti chiamava terroristi quanti spesso avevano imboccato la strada senza ritorno delle armi proprio per reazione alle bombe nelle piazze, sui treni, nelle stazioni, tra genti inermi usate come carne da macello per imporre a una generazione refrattaria ciò che oggi è norma ineluttabile: neoliberismo selvaggio e pensiero unico, tenaglia dalla quale si può sfuggire soltanto silenti o reietti. Eppure, la Storia non si è affatto fermata e da altre zone del mondo genti meno assuefatte della nostra hanno ripreso a dimostrare che il re è nudo e il Dio Mercato non solo ha fallito, ma è il più spietato e sanguinario dei demoni.
Intanto… non erano tutti tra quei seimila reclusi nelle famigerate carceri speciali, i “combattenti” – come allora si autodenominava chi aveva fatto la scelta della clandestinità forse più per disperazione che per fede in una rivoluzione impossibile – e molti si defilavano sciogliendosi come olio nell’acqua in una realtà di finzione quotidiana, vano tentativo di scordare il passato, in un mondo che è «un taglio nella pelle profondo solo agli occhi di chi lo vuol vedere». E per di più con l’angoscia che nessuno avrebbe raccontato questa storia, perché non conveniva ai protagonisti desiderosi di ombra e oblio e non interessava all’Italia proiettata nel criminoso “arricchitevi e non pensate”. Stefano Tassinari lo ha fatto nel suo ultimo romanzo L’amore degli insorti (Marco Tropea Editore, pp. 170, euro 12,50). Ha raccontato la vicenda umana e politica di uno di quegli innumerevoli personaggi da oltre vent’anni diafani e pressoché invisibili.
Lo ha chiamato Emilio Calvesi, un tempo Paolo, che sfuggito a una “giustizia” a senso unico – mai avremo un tribunale internazionale per l’uso della tortura contro gli oppositori politici d’Italia – ha cambiato città e abitudini, si è faticosamente e dolorosamente adattato – pur condannato a essere un eterno disadattato – alla cosiddetta “vita normale”, eufemismo per qualificare tutto ciò che fino a prima aveva aborrito, diventando persino un “uomo di successo”, secondo i parametri dell’alienazione istituzionalizzata. Finché… qualcuno comincia a spedirgli lettere firmate misteriosamente “Sonia”, dimostrando di conoscere tutto di lui e di quell’altra vita, e di colpo quest’altra vita di Calvesi diviene «sospesa tra una memoria intima e un futuro da inventare»; all’improvviso “in quarantena”, Calvesi si sente braccato, costretto a rivivere il passato che non passa mai, tutto perché allora «l’ha fatta franca»…
Proprio questa frase, sembra scatenare in lui una sorta di orgoglio tenuto forzosamente sopito per un quarto di secolo, e si chiede cosa mai significhi “farla franca”, se il prezzo è stato interminabili anni di testa bassa e storie inventate per riempire i vuoti. E rifiuta pentimenti d’ogni sorta, anzi rivendica il diritto a non dimenticare il clima di quegli anni pur essendo ormai impossibile raccontarlo, ricordando a se stesso – senza poterlo fare a nessun altro – che «i morti sono morti, i nostri e i loro, e per di più non siamo stati noi a cominciare». Frase, quest’ultima, che potrebbe far storcere il naso a certi “irriducibili” – che hanno se stessi come unico referente nella realtà – convinti che comunque la “rivoluzione” andava fatta e che loro giammai presero la pistola per difendersi o per reagire alla disperante situazione di chi andava a manifestare in piazza con i bastoni delle bandiere e si ritrovava a schivare pallottole di piombo, quelle dello Stato che diede il nome agli anni del suo piombo. Credo che porre l’accento sulla rivolta contro le violenze subite sia un modo onesto di riportare alla memoria quegli anni, anche se questo significa guardare sul fondo del crepaccio – e non “labile confine” come alcuni vorrebbero – che separa da sempre i ribelli dai rivoluzionari: i ribelli come scintilla e scoppio di qualunque motore che tiene in movimento la democrazia, rivoluzionari come futuri repressori o pentiti del proprio ardire. Anche in questo caso, è un – grosso – problema di linguaggio.
Un libro coraggioso, come è l’indole di Stefano Tassinari che quegli anni li visse sul selciato insanguinato da tanti ragazzi e ragazze ammazzati alla stregua di “terroristi” che non erano né sarebbero mai stati, ma tra i molti pregi di questo prezioso – salutare, direi – esercizio di memoria c’è anche quello di uno scrittore che riesce a dare voce e pensieri a un personaggio che non necessariamente la pensa come lui su tutto, e proprio per questo Emilio Calvesi risulta concreto, visibile, perché l’autore lo ha sapientemente rianimato dal limbo degli “invisibili” lasciandogli intatte non solo le sue qualità ma anche i suoi difetti, se per “difetti” intendiamo la scelta della lotta armata che proprio Stefano Tassinari allora non condivise né giustificò. Perché all’autore sta a cuore – anche questo è un atto di coraggio in tempi di viltà diffusa – ricordarci che non si può pretendere da una generazione – politica, ma non solo politica perché il campo era ben più vasto – di umiliarsi al punto da gettare via il proprio passato per vederlo scorrere nelle fognature dei salotti televisivi. Perché rimane «la certezza che si possa sbagliare dalla parte giusta» senza che questo significhi affatto che loro avessero ragione.
Il romanzo ha un ritmo trascinante per la felice idea di tenere il lettore nell’attesa di capire chi e perché stia mettendo in atto la “persecuzione”, e quale sia l’obiettivo ultimo, ma la sua forza sta anche nella capacità di far riaffiorare una memoria rimossa per troppo tempo – compresi gli episodi più laceranti, come gli scontri con l’arrogante servizio d’ordine di Lama all’università, scavando così nel pus di una ferita su cui nessuno ha mai messo neppure un cerotto – come nel saper calare il lettore nella “disumanizzazione” di chi scelse la via delle armi, basti l’esempio delle pagine commoventi e al tempo stesso raggelanti della morte di Angela, ricorrendo a una scrittura volutamente distaccata come doveva essere il protagonista allora per non soccombere, il distacco da quell’evento atroce che rende in pieno tutto il percorso di rimozione ed estraniamento compiuto da Emilio Calvesi per diventare ciò che è oggi: «Chi ha fatto la mia vita deve riuscire a sopportare i tagli alla radice»… Tagli che non comportano certezze assolute, quelle che tanti danni hanno fatto all’umanità lungo l’intero suo corso, bensì dubbi, che sono comunque fecondi: stalinista fu l’ottusa chiusura a quel variegato movimento rinnovatore da parte di tanti autorevoli “padri” comunisti di allora, e solo gli stalinisti nella storia del XX secolo non hanno mai avuto dubbi, mentre noi, “poveri untorelli”, tra i tanti dubbi abbiamo anche quello di quale sia il lascito dello stalinismo: la Russia delle mafie? La narco–Albania? La corruzione dilagante dalla Polonia all’Ucraina? L’ex Germania dell’Est che pullula di neonazisti? L’odierna Mosca dell’arricchitevi con qualunque mezzo che risplende delle insegne al neon di bordelli di lusso intervallati ai McDonald e invariabilmente attorniati da schiere di mendicanti? La Cina colosso economico al prezzo del lavoro schiavizzato? E’ questo che ci hanno lasciato coloro che non hanno mai avuto dubbi sulla via da seguire.
A un certo punto del romanzo, Stefano Tassinari affida alla misteriosa persecutrice “Sonia” la domanda chissà quante volte rimuginata dagli stessi che quegli anni fecero la scelta senza ritorno: «Potevate imboccare un’altra strada?», e se lei si dà già la risposta – «Io credo di sì» – il dubbio resta e non si scioglierà mai, seguito dal lungo poema a verso libero che è struggente sintesi di tanto sentire e che si conclude con la motivazione del titolo stesso: «Schierati a protezione di un’intesa tra l’utopia di chi insegue gli orizzonti e gli orizzonti stessi, che si spostano per noi come se fossero le guide di un cammino in fondo al quale scavalcare il mare, per ritrovare lì l’amore degli insorti, che solo noi sappiamo pronunciare».
Il protagonista della nostra storia – che considero “nostra” in molti sensi – aggiunge il commento «versi intrisi di un romanticismo che è stato anche il mio», quasi a voler rimarcare che è stato e non è più, in questa vita sospesa e in quarantena, ma Stefano Tassinari appartiene a quella sempre meno esigua schiera di narratori delle passioni e della memoria da non smarrire – finora inseguita da noi lettori soprattutto al di là dell’oceano in quelle terre che si estendono dal Rio Bravo alla Patagonia – che non hanno paura dei sentimenti, che hanno il coraggio di essere romantici nel senso più nobile del termine, efficace antidoto al tossico cinismo imperante dei vassalli dell’Impero.
Infine – per ragioni di spazio, non certo perché non avrei altro da aggiungere – Tassinari è un attento osservatore del linguaggio e qui, con penna leggera e sfumata ironia – autoironia, trattandosi di “noi” – non perde occasione tra una pagina e l’altra di cogliere tanti intercalari di moda, sottolineando de paso che in fin dei conti denotano sempre un «non sapere come andare avanti», e chissà quanti sorrideranno di se stessi leggendo che dobbiamo niente meno che a Marcuse la nefanda “nella misura in cui” che ci fece perdere il senso del ridicolo nelle innumerevoli discussioni, assemblee, proclami e intimi “scazzi”, come dicevamo allora.
Ma quanto erano dense, quelle nottate e giornate di dubbi contrapposti alle certezze, se confrontate con quello che è venuto dopo…