Scrivere come risposta (etica) agli altri. Una conversazione con D. Hunter – Roberto Derobertis da Pulp Libri
Da Pulp Libri
Arrivo al “Bread&Roses” nel giorno in cui è prevista una data del tour italiano organizzata dal suo editore, Edizioni Alegre, per promuovere i suoi due dirompenti libri: Chav. Solidarietà coatta (2020) e il nuovo Tute, traumi e traditori di classe (2022), entrambi usciti nella collana “Working Class” curata da Alberto Prunetti. Sono un po’ agitato: fremo all’idea di incontrarlo ma allo stesso tempo temo la spigolosità del personaggio poiché, da lettore un po’ naif che talvolta ancora mi capita di essere, nella mia mente ho sovrapposto il protagonista delle sue storie con l’autore – che nella quarta di copertina si definisce “un coatto di mezza età di Nottingham”, vissuto ai margini e in un’economia informale per venticinque anni e calciofilo.
Arrivo al posto un’ora prima dell’evento su suggerimento di Gianni, un’attivista del posto che ha già anticipato ad Hunter la mia volontà di intervistarlo. Sono con mio figlio di otto anni, ci aggiriamo nel giardino che ci è familiare: ci sono poche persone ma non riconoscerei l’autore. Dopo pochi minuti si avvicina una giovane donna: è l’interprete di Hunter il quale vuole farmi sapere che, per gli argomenti trattati nei testi e per tutto ciò che di solito emerge durante le presentazioni, forse non è il caso che il bambino sia presente. Chiedo di incontrarlo e subito lo ringrazio. Gli dico che, in effetti, non sarei rimasto ma che vorrei poterlo intervistare almeno via email. Gli parlo di PULP Libri, sa della nostra recensione di Chav e si rende disponibile. Gli dico che m’interesserebbe parlare della sua scrittura e non solo del contenuto – forte, certamente scabroso – dei suoi testi; degli aspetti più letterari, insomma. Si schermisce e con un sorriso disarmato e dolce mi dice: “All’incontro precedente, a Roma, durante la presentazione è intervenuto anche un professore universitario… un critico letterario. Ha detto cose molto interessanti e difficili per me. Qui in Italia è la prima volta che trovo interesse per questi aspetti dei miei libri”.
Chiacchieriamo un po’, ci prendiamo un po’ le misure, ci mettiamo d’accordo.
Il forte tratto autobiografico dei suoi testi – romanzi ibridi? autofiction? non-fiction? – e la continua focalizzazione su questo io che narra bulimicamente esperienze atroci e stordenti lasciano scossi: è un continuo susseguirsi di sentimenti contrastanti per un lettore/lettrice che non abbia fatto le stesse esperienze. Disgusto, terrore, compassione ed empatia, ma anche, talvolta, sollievo e senso di liberazione giungono a folate. Se nei reietti di Irvine Welsh – primo esempio che balza alla mente – la costruzione linguistico-narrativa (punteggiatura e slittamento dei punti di vista su tutto) o l’esasperazione dei tratti grotteschi costituiscono una forma di distacco, di filtro di sicurezza, il realismo secco e crudo di Hunter, invece, inchiodano e risucchiano. La distanza è pressoché impossibile: si piange, si resta atterriti o, al più, si sorride amaro quando qualche aguzzino – un parente stupratore o un agente di polizia penitenziaria – soccombe.
A differenza di Chav, in Tute, traumi e traditori di classe sembra prevalere un registro più tradizionale, nel quale si alternano momenti della via attuale del protagonista (ora addetto ai servizi di cura) a flashback dei suoi anni giovanili, che costituivano la polpa rapsodica del libro precedente. Se in Chav il motore della narrazione è il susseguirsi quasi picaresco di avventure passate come una giustapposizione di eventi, affermazioni politiche e analisi sociologiche, in Tute… sembra invece che tutto sia innescato dal dolore del ricordo. Questo dolore modifica lo stato psicologico del protagonista e io narrante fluendo in una narrazione più lineare e ordinata. In Tute… ci sono momenti davvero commoventi, soprattutto nella raffigurazione di personaggi pieni di umanità, tra cui la disperata e tenera Valerie che era già comparsa in Chav come monumento all’amore totale e alla sua dissoluzione nel mondo crudele e implacabile dell’esclusione di classe.
Il libro si snoda in undici capitoli – tre dei quali, non a caso, sono intitolati con nomi di persone – che disegnano la via crucis di un durissimo apprendistato alla vita per personaggi che, sin da ragazzini, hanno conosciuto abusi e violenze in famiglia, prostituzione, carcere, ma anche una straordinaria e sporca solidarietà tra consimili di un universo working class attraversato dalle regole spietate del capitalismo e dello Stato che mettono in circolo desideri e allo stesso tempo praticano feroci politiche dell’esclusione e della segregazione di tutti quei soggetti non conformi: giovani analfabeti, soggetti transgender, madri single, cittadini neri, tossicodipendenti. Su tutte, ingombrante ed inquietante, si staglia la figura a tratti orrorifica, a tratti umanissima, del nonno materno: patriarca senza scrupoli di una famiglia di rom irlandesi dedita (per forza di cose?) al crimine.
Condivido alcune di queste riflessioni con Hunter, con la promessa di discorrerne in maniera più distesa via email.
Hunter ha accetto di parlare dei suoi libri ma non si è certo risparmiato nel sottolineare alcuni aspetti della sua biografia – aver imparato a leggere a vent’anni –, della sua militanza anticapitalista e del suo disprezzo sociologico – ma mai antropologico! – per le classi medie al tempo della Globalizzazione neoliberista.
Dopo un fitto scambio ne è nata questa conversazione che potrà offrire qualche spunto su uno dei fenomeni più irregolari della letteratura europea di questi anni.
Pulp. Nella tua introduzione a Chav usi la parola “voce”. Non credi che la scrittura – ed in particolare la narrativa – sia una questione di trovare/dare/ascoltare la voce di coloro che sono stati ridotti al silenzio?
D. Hunter. Io credo ci siano delle ragioni per cui sia così. Ma non è ciò che la scrittura è nel mondo che viviamo ora. Credo che la gran parte della scrittura sia fatta di messaggi o post sui social network, alcuni dei quali danno voce a coloro che sono stati silenziati ma non la gran parte di essi. Se parliamo di scritture “pubblicate”, allora stiamo parlando di un’industria che si occupa di generare quanto più prodotti possibili e di ogni genere per un pubblico che è stato reso oggetto di pratiche commerciali in base a una qualche descrizione. Quando sono andato al Salone del libro di Torino ho provato la stessa sensazione che provo quando vado in una libreria. Ci sono troppi libri. E tuttavia non abbastanza che diano voce a coloro che sono stati silenziati. Persino quando prendi un libro che parla alla realtà di una vita silenziata, la stessa industria la doma con il suo bisogno di narrazioni commerciali e di consumo.
Pulp. In entrambi i libri usi spesso esclamazioni ed espressioni che si rivolgono direttamente al lettore/lettrice: sembrano aprire un dialogo con lui/lei. Volevi stabilire una qualche forma di contatto con il tuo pubblico?
D. Hunter. Prima che scrivessi parlavo e in quel parlare parlavo ad altri umani (sebbene a me stesso più di quanto mi sia mai piaciuto). Quando parlo ad altre persone faccio due cose (beh, forse di più, ma due sono rilevanti qui): a) provo a finire, perché odio parlare; b) voglio che l’altra persona sia interessata e allo stesso tempo abbia una qualche reazione [response, ndt]. Credo che questo sia in parte come scrivo, mi sento in conversazione con qualcuno, gli sto rispondendo e provo ad incoraggiare una reazione che sia verbale, fisica o qualunque altra. Il mio secondo libro è stato per certi versi la mia risposta a pensieri, commenti, idee che sono stati condivisi con me durante eventi o attraverso email dalle persone che avevano letto il mio primo libro. Il dono di Chav, per me, è stato i modi in cui le persone hanno condiviso le loro reazioni, reazioni che talvolta riguardavano direttamente il libro, ma spesso erano solo pensieri sulle loro vite, le loro politiche, i loro modi di stare al mondo. Così, quando ho scritto Tute…, avevo tutte queste risposte che mi nuotavano in testa, ed era semplicemente naturale che rispondessi a loro mentre scrivevo. Se dovessi mai scrivere ancora, immagino in molti modi che si tratterà di rispondere a ciò che le persone mi hanno detto l’ultima volta che ho parlato.
Pulp. In Tute…, nel capitolo intitolato Sanjay, il tuo protagonista per la prima volta incontra il potere curativo e liberatorio della letteratura (viene anche citato Charles Bukowski). Credi in quel potere? L’hai mai sperimentato?
D. Hunter. Penso di crederci. Non sono mai del tutto sicuro di averlo sperimentato. Imparare a leggere a vent’anni è stata una esperienza liberatoria e ci sono stati testi che hanno avuto un ruolo in qualsiasi guarigione io abbia attraversato negli ultimi vent’anni, ma da soli non credo avrebbero fatto tutto il lavoro. Sanjay in Sanjay l’ha sperimentato, ha sentito e reclamato la letteratura nella sua salvezza, e poterlo testimoniare è stato sorprendente e mi è rimasto incollato per anni a venire. A tal punto da pensare che io, quando ho imparato a leggere, una parte di me sperava in qualcosa di simile ma, credo, ho ottenuto qualcosa di diverso. Meno salvezza, meno liberazione o guarigione, ma piuttosto una mezza mappa per raggiungere tutte quelle cose, e che allora avrei dovuto star dentro quei frammenti di carta lacerati, imbrattati e a volte illeggibili che contenevano l’altra metà della mappa.
Pulp. La letteratura è generalmente considerata come una fuga dalla realtà o un modo di trasformarla. Il personaggio di Valerie – che si trova in entrambi i libri – mi sembra una sorta di metafora della letteratura: consolazione e trasformazione.
D. Hunter. Guarda, non ho davvero nulla da dire su questo. Non ho pensato a Valerie in questo modo, per me lei era/è una persona reale che conoscevo e di cui mi sono preso cura, per cui non penso a lei come metafora di nulla.
Pulp. Hai un qualche riferimento letterario? Qualche autore che ti ha ispirato? A volte nei tuoi libri sembra di sentire l’eco di Irvine Welsh e John King: è plausibile?
D. Hunter. Non sono un fan di nessuno dei due, sebbene abbia avuto incontri limitati con King. Quando si tratta di ispirazione conscia gli scrittori che mi fanno da punti di riferimento quando penso a come scrivo sono fondamentalmente scrittori di crime fiction americana come Dennis Lehane, George Pelacanos, Dashiell Hammett, in particolare per il solo fatto di permettere alle loro narrazioni di essere il loro strumento senza bisogno di un’abbondanza di orpelli. Benché scrivessero narrativa e io ho scritto non-fiction, ho provato a ricordarmi che se racconti una storia in maniera chiara senza farti sommergere dal dovertela tirare come scrittore hai più possibilità di coinvolgere tutti. Quei tre e Denis Johnson (soprattutto Jesus’s Son), Willy Vlautin, tutti loro lo fanno e quando li leggo ho la sensazione di stare giù al pub e qualcuno racconta cos’ha combinato di recente, piuttosto che impressionarmi con belle parole. Facendo così estraggono una reale profondità dell’umano in tutti suoi difetti e imperfezioni. Però prima di loro sono venuti Jean Genet, James Baldwin, Dennis Cooper (pare che io abbia una predilezione per scrittori di nome Den(n)is), Dorothy Allison, James Kelman e Andrea Dunbar. Kelman e Dunbar sono stato particolarmente importanti, perché scrivevano dal Regno Unito, e la gran parte di scritture del Regno Unito che ho letto non suonavano come il Regno Unito che conosco. Altri due rilevanti sono Robert Walser e Elfriede Jelinek, che insieme a Cooper mi hanno assolutamente chiarito nella mia testa che a) niente è irrilevante [off the table, ndt] e b) puoi nascondere coltelli sotto il tavolo. Naturalmente si tratta di scrittori di narrativa, se andiamo avanti con gli scrittori di non-fiction potremmo star qui tutto il giorno. Forse dovrei dire che questi sono gli scrittori che ho letto a partire dai miei vent’anni avanzati, ci sono altre cose in cui mi sono imbattuto che potrebbero aver avuto un impatto ma non me ne sono ancora reso conto.
Pulp. Come definiresti i tuoi libri? Autofiction? Memoir? Oppure…? A volte sembrano manuali su come disimparare a essere maschi bianchi eterosessuali.
D. Hunter. La mia compagna mi ha chiesto questo l’altro giorno, quindi dirò a te quello che ho detto a lei. Chav è una serie di saggi autobiografici su classe, traumi e movimenti sociali, mentre Tute… è una serie auto-etnografica di saggi sull’assistenza di comunità, l’abolizione e la bianchezza. Quelle due definizioni si mescolano, però.
Pulp. Come si può riuscire a trasformare la disperazione e la disumanizzazione in scrittura? Tu cosa hai fatto?
D. Hunter. Io ho riconosciuto che anche durante la disperazione e la disumanizzazione c’era la cura, c’era l’amore, c’era la solidarietà. Che indipendentemente dalle condizioni violente e le sofferenze, c’erano persone (a volte me, ma raramente) capaci di tenere gli altri per mano e nei loro cuori, non importa il livello di dolore nel quale possano essersi trovate. Essere capaci di riconoscere che era l’84% della sfida. Il resto erano solo parole.
Pulp. Quando scrivi a proposito delle prigioni e dell’intero sistema di internamento sociale e politico, mi sembra che ci siano delle tracce di Sorvegliare e punire (1975) di Michel Foucault. Pensi che le sue idee siano ancora valide oggi? Prigioni e manicomi sono ancora i più potenti strumenti di controllo usati dal capitalismo?
D. Hunter. Le prigioni sono un potente strumento di controllo. Il più potente? Non lo so. Le procedure disciplinanti e punitive, che furono inizialmente sviluppate dai colonialisti europei e furono poi riorganizzate nella polizia e nel sistema carcerario, sono state interiorizzate nel corpo e nella psiche collettivi. Ciò è cosa ho inteso di quello a cui Foucault voleva arrivare e, quarant’anni dopo, vorrei suggerire che tutto questo si è intensificato ed è cresciuto in tandem con il capitale. Quando scriveva, le politiche neoliberiste non avevano ancora fatto presa, ma nel suo lavoro genealogico aveva anche indicato il futuro, che lo sapesse o meno. I capitalisti lungo tutta la mia vita hanno presentato la facciata della libertà, della scelta, dell’opportunità, per ottenere un livello decente di sostegno da parte della popolazione globale che vive in condizioni di relativo confort e sicurezza. Si tratta in maniera predominante delle classi medie bianche ed europee (o dell’aristocrazia operaia), ma include anche una parte della working class europea e delle classi medie del Sud globale. Questa popolazione viene prima minacciata di esclusione da questa mitiche libertà, scelta, opportunità e incoraggiata a introiettare certe norme e valori che sono fondamentalmente quelle del neoliberismo – gli individui vengono valutati in base alla loro produttività, alla struttura familiare etero-patriarcale etc. –, una volta fatti propri questi valori comincia un processo di auto-disciplinamento e disciplinamento degli altri all’interno di spazi sociali condivisi. Naturalmente questi valori sono soggetti a dei cambiamenti, poiché la differenza viene assorbita dall’egemonia. E veniamo incoraggiati a questo cambiamento come progresso sociale.
Pulp. La prima volta che ho incontrato la parola “chav” [coatto, ndt] è stato quando ho letto Chavs. The Demonization of the Working Class (2011) di Owen Jones, che ho trovato molto potente ed efficace nel descrivere il sistema sociale britannico. Ora, capisco dai tuoi libri che lui non è il tuo autore preferito ma mi chiedo quale sia la tua idea su quel libro. E mi chiedo anche se ci siano dei “coatti” tra i tuoi lettori/lettrici.
D. Hunter. No, non sono un fan. In generale persone di sinistra di classe media che perseguono carriere nel giornalismo sottoforma di militanza radicale non fanno per me. Il libro va bene, ha certamente spalancato la sua carriera, ma è chiaramente scritto dall’esterno, è la gente come lui – professionisti bianchi di classe media – che hanno prodotto questa demonizzazione. Lui colpisce le élite, va benissimo, ma sono le élite/la classe capitalista che stabiliscono le condizioni su come condurre la demonizzazione, ma i professionisti di classe media sono la fanteria di quel processo. Lui non tematizza la questione, né riconosce la sua posizione strutturale in relazione ad essa. E, siccome ha avviato la sua carriera da questo libro, è stato piuttosto silenzioso sulla questione.
Ci sono coatti tra i miei lettori? Sì! Ci sono stati dei tizi con me dopo le presentazioni dei libri o che mi hanno scritto via email per parlare delle cose di cui ho scritto e come fossero in sintonia con la loro esperienza. Nel caso di entrambi i libri ci siamo assicurati che delle copie gratuite fossero inviate a carcerati, rese disponibili nei centri giovanili, nelle comunità e nei rifugi per i senza fissa dimora, e questo ha aumentato la possibilità che finissero nelle Mani giuste.
Pulp. In definitiva, la scrittura creativa è il modo in cui contribuirai alle lotte politiche radicali nel prossimo futuro?
D. Hunter. No! Dopo questi due libri non sono sicuro che scriverò ancora. Credo in generale che ci siano troppi libri, gente che fa rumore fine a se stesso, come per ego/vanità/cose simili, e io non voglio scivolare (se non l’ho già fatto) in tutto questo. Amo i libri, ma sono lontani dai modi più efficaci per contribuire alla lotta politica radicale. Più probabilmente cercherò delle strade per impegnarmi nella solidarietà e nel mutualismo nelle comunità di cui sono parte.