Siamo tutti interdipendenti – Laura Marzi da “il manifesto”
da il manifesto
Il care, o cura, è un dispositivo critico che mette in luce diversi aspetti della realtà – politici, di genere, sociali – e deve quindi essere indagato a partire da molteplici prospettive di analisi.
Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, edito da Alegre (pp. 128, euro 12, prefazione di Sara Farris, postfazione di Jennifer Guerra), tradotto da Maria Moïse e Gaia Benzi, è il frutto del lavoro di un gruppo di cinque fra studiose e studiosi britannici di discipline diverse: The Care Collective. Non è inusuale che la riflessione su questo tema avvenga in seno a équipe di lavoro eterogenee, come dimostra anche l’esperienza del collettivo francese, composto fra le altre da Sandra Laugier, Pascale Molinier e Patricia Paperman.
La pandemia in corso ha svelato l’urgenza di un discorso pubblico intorno alla cura: da sempre relegata dietro le quinte di una società individualista, è ora balzata al centro della riflessione comune. In rete circolano manifesti di associazioni femministe, a giugno del 2020 Nottetempo ha pubblicato l’ebook Democratizzare la cura /Curare la democrazia di Giorgia Serughetti, interessante disamina politica che prende le mosse dallo scandalo e dalla tragedia dei sistemi di sanità pubblica, messi in luce dall’emergenza Covid-19.
La riflessione sulla cura, però, comprende e supera l’ambito sanitario: basti ricordare gli studi della psicologa statunitense Carol Gilligan (1982) che all’epoca collaborava con Lawrence Kohlberg a ricerche empiriche sulle capacità umane di giudizio morale. Il filosofo, nella sua teoria dello sviluppo morale, aveva rilevato una deficienza etica nelle risposte delle donne. Gilligan evidenziò invece l’inadeguatezza della teoria e l’estraneità delle risposte delle intervistate rispetto ai criteri morali astratti del sistema filosofico maschilista dominante. Gli studi di Gilligan sull’etica della cura furono però tacciati di essenzialismo e per questo ignorati.
È importante, invece, ricordarli anche perché uno degli aspetti più interessanti di questo Manifesto della cura è il rimando al concetto di estraneità intesa come valore. Immune all’essenzialismo, il Manifesto ribadisce che la cura come «principio organizzatore» si situa nel contesto di un «cosmopolitismo quotidiano, radicale e democratico». Per questo, si parla qui di una «cura promiscua». Si tratta di un’idea ripresa da un articolo di Douglas Crimp scritto in Gran Bretagna durante l’epidemia di Aids: How to have promiscuity in an Epidemic (1987).
La promiscuità che tutti individuavano come origine del diffondersi dell’Hiv, nonché stigma morale della comunità omosessuale, secondo Crimp poteva trasformarsi da causa di morte a «moltiplicazione e sperimentazione dei modi in cui gli uomini gay potevano entrare in intimità e prendersi cura l’uno dell’altro». La promiscuità permise infatti nuove relazioni di cura: in quel periodo nacquero comunità di sostegno ai malati fondate sul presupposto che la persona da seguire fosse «un estraneo come me». L’epidemia di Hiv aveva infatti rivelato come la cura familiare, il sostegno e la presa in carico da parte dei parenti più stretti, dei consanguinei, non fosse scontata, né necessaria o sufficiente.
Si tratta di un altro aspetto importante affrontato in questo Manifesto: è prioritario disgiungere la cura dal contesto della famiglia tradizionale nucleare che ancora «fornisce il prototipo della relazione di cura e delle accezioni contemporanee del concetto di legame, tutte derivate dalle ramificazioni mitologiche del ’primario legame materno’». Da questa sovrapposizione deriva, infatti, il sovraccarico di lavoro di cura – retribuito e non – a cui sono sottoposte le donne, in particolare quelle «povere, immigrate e non bianche». Spesso per le care givers queste tre condizioni si sovrappongono, come nota Patricia Paperman in Le souci des autres (Ehess, 2011).
«La cura è stata a lungo svalutata, soprattutto perché associata al concetto di donna, di femminilità e di attività ’improduttiva’»: sfruttando questo automatismo per cui la cura attiene al femminile, il sistema maschilista, neoliberista ha spazzato via il welfare, i sistemi sanitari nazionali, gli spazi pubblici di condivisione, avanzando con la privatizzazione e la capitalizzazione, anche della vita intima (Russell Hocschild, 2003). La cura di sé, dei bambini, degli animali è diventata terreno di commercializzazione, così il wellness ha soppiantato la cura e la famigerata resilienza ha preso il posto della vulnerabilità. La resilienza rimanda a un’idea di individuo capace di reagire, in assoluta solitudine e autonomia, ai traumi e alle difficoltà dell’esistenza. Essa, però, è una proprietà dei materiali che non contempla l’evidenza ontologica per cui gli esseri umani sono interdipendenti. Il Manifesto della cura descrive questa condizione ineludibile svelando l’inganno del self made man. Più una persona è ricca e maggiormente sfrutta o si avvale dell’aiuto degli altri, «dalle tate alle domestiche, dalle cuoche ai maggiordomi, fino ai giardinieri e alla vasta gamma di lavoratori e lavoratrici. Eppure questa dipendenza così profonda resta nell’ombra o è negata del tutto».
Il «Manifesto» non si limita, però, a stigmatizzare la catastrofe del sistema dominante, fornisce esempi di cambiamento che sono già in atto, in molte parti del mondo. Partendo dal presupposto che una società in cui la cura è il principio organizzatore è «femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista», illustra le possibilità e le caratteristiche dello «stato di cura che non mira a incrementare il rapporto di dipendenza, ma a coltivare l’autonomia e l’indipendenza strategica». E ovviamente non viene tralasciata l’analisi economica: un’economia della cura è incentrata sui nostri bisogni e non su quelli del mercato finanziario, cioè dei privilegiati che ne raccolgono i frutti.
La crisi pandemica costringe i governi a cambiare le proprie politiche economiche, dimostrando come la scelta di non investire sulla sanità pubblica, per esempio, non fosse inevitabile, ma frutto di una strategia precisa di privatizzazione e impoverimento dei sistemi sanitari nazionali. La pandemia ha fatto luce sull’importanza della cura e del lavoro intorno a essa, ha mostrato le crepe e i crepacci del sistema neoliberista: queste fratture possono essere il punto di partenza per «riparare il nostro mondo» come scrivevano Joan Tronto e Berenice Fischer (Diabasis, 2006), perché mai è stato così chiaro che ne va della sopravvivenza del pianeta e di chiunque.